OCM VITIVINICOLO


 

OCM VITIVINICOLO

LA POSIZIONE DELLA FLAI CGIL

 

 

COSA RAPPRESENTA IL SETTORE: L’ANIMA

 

A monte di qualsiasi considerazione di carattere economico, il vitivinicolo italiano rappresenta in modo indiscusso uno dei “monumenti” del nostro agroalimentare.

Nel suo derivare dai più antichi flussi di popoli mediterranei, al pari delle basi del pensiero filosofico occidentale, la viticoltura è parte integrante del nostro patrimonio culturale.

Nel nostro vino convergono il nostro passato ed il nostro futuro; il territorio com’era e come vogliamo che sia; una sapienza tecnologica antica e costantemente rinnovata; l’arte del fare e del rappresentare e, ultimo nella lista ma primo nelle preoccupazioni del sindacato: il lavoro dell’uomo. E’ un miracolo come tutto ciò possa concentrarsi in un bicchiere: ma perché il miracolo si perpetri, quelli che sono i caratteri distintivi dell’enogastronomia italiana devono mantenersi integri, perché possano essere riconosciuti, sempre e ovunque, come il nostro più alto “documento di identità”.

Le dolorose esperienze fatte in occasione delle OCM dello zucchero e del tabacco ci spronano ad elaborare una nostra piano di azione prima che anche il vitivinicolo venga penalizzato, con la consapevolezza che questa volta ciò che sarebbe depauperato rappresenta per noi ben di più che un’attività produttiva.

 

 

COSA RAPPRESENTA IL SETTORE ECONOMICAMENTE

 

Il nostro Paese produce più del 17% del vino mondiale e ca. il 30% di quello europeo. E’ il secondo produttore dopo la Francia ed il primo esportatore. Si presenta sul mercato con un’offerta ricca e segmentata per qualità e fasce di prezzo.

Bastano questi pochi elementi per identificare l’Italia come il leader del mercato mondiale, palma che le è contesa, a seconda dei punti di osservazione, solamente dalla Francia.

Incide in modo preponderante sulle voci di bilancio dell’agroalimentare italiano e la parte della trasformazione industriale occupa il terzo posto dopo lattiero caseario e dolciario.

 

 

 

L’OCCUPAZIONE DIPENDENTE

 

E’ impossibile identificare chiaramente l’entità e le peculiarità dell’occupazione nel settore vitivinicolo in quanto essa coesiste, soprattutto nella parte iniziale della filiera, con tutte le altre attività agricole. Dato questo presupposto, anche il lavoro, con particolare riguardo a quello svolto nella vigna, è affetto da i mali che affliggono il settore primario: il massiccio ricorso al lavoro sia irregolare che nero, soprattutto nella fase di raccolta, con condizioni che possono essere anche di selvaggio sfruttamento in alcune aree del paese. Inoltre negli ultimi anni la presenza di lavoratori migranti ha determinato l’emergere della figura dello SCHIAVISTA che, senza scrupoli, gestisce e sfrutta la fame di lavoro di decina di migliaia di uomini e donne.

Sappiamo oltretutto che queste condizioni di illegalità sono il bacino in cui prolifera la criminalità organizzata. Questa realtà è incompatibile con un sano sviluppo di un settore che vede nella qualità il suo punto di forza ed ha già pagato duramente in passato la scarsa coscienza di alcuni operatori: ci riferiamo evidentemente alle sofisticazioni, ma è ovvio che l’assenza di una salda base etica che regoli l’operato dell’impresa può estrinsecarsi in molti modi, tutti lesivi per il contenuto oggettivo e di immagine del prodotto che vogliamo promuovere. A questa realtà si accompagnano anche fenomeni di evasione fiscale e di clandestinità economica che determinano condizioni di concorrenza sleale e danno per la comunità tutta.

 

Nonostante gli obiettivi posti con la strategia di Lisbona, il lavoro rimane un elemento sotteso nelle politiche del comparto agricolo: quando viene affrontato, l’attenzione rimane comunque concentrata sul solo imprenditore.

Il lavoro dipendente non è quindi concepito come fattore di sviluppo del sistema nel complesso, e non è quindi  destinatario di politiche specifiche; né nell’OCM, né nell’ambito del secondo pilastro.

L’unico strumento disponibile restano i fondi sociali e l’unica speranza di attenzione è riposta nella capacità degli stakeholders del processo di concepire lo sviluppo dell’agroalimentae italiano in termini olistici e di saper integrare quindi tutta la strumentazione disponibile.  

Troppo esile questa speranza, in un contesto in cui le imprese denotano un’abitudine ormai consolidata da decenni a considerare le risorse comunitarie come una loro esclusiva ed individuale fonte di sostentamento parallela e svincolata dall’attività imprenditoriale propriamente detta. Il contributo che l’occupazione dipendente rende al settore è quindi misconosciuto, non considerato come fattore di sviluppo su cui investire. I fenomeni di disagio sociale che lo caratterizzano non vengono considerati strutturali del settore e quindi rimandati a politiche diverse, come se appartenessero ad una “storia diversa”.

Le radici di tanta negligenza nei confronti del lavoro dipendente sono generalmente tanto più radicate quanto più piccola è l’impresa. Di contro, l’occupazione tende a stabilizzarsi nell’industria di trasformazione delle uve in modo crescente con l’aumentare della rilevanza territoriale delle aziende.

 

Resta il fatto che è difficile valutare l’entità dell’occupazione dipendente, dati i metodi di rilevazione e la stagionalità spiccata. Questa incuria nel rilevare e analizzare il dato sull’occupazione dipendente è comune a tutto il comparto agricolo, ed è anch’essa sintomo del più generale disinteresse.

 

L’idea di lavoro dipendente, nel settore vitivinicolo, resta ancorata all’immagine della vendemmia, e quindi si tende a ritenerlo un fenomeno concentrato in un periodo brevissimo dell’anno. Riteniamo che questo assioma vada superato: la qualità della prestazione lavorativa, necessaria per generare qualità di prodotto, si esplica lungo tutte le fasi della filiera, è legata alle cure colturali, alla vinificazione, fino alla distribuzione. E non solo, perché in un sistema competitivo sul mercato globale, il processo produttivo deve necessariamente essere integrato dalla ricerca, dal marketing e dal supply chain management, attività che possono restituire opportunità di lavoro di qualità.

 

 

 

 

L’ O.C.M.

 

Dal dopoguerra ad oggi l’Europa ha inciso sullo sviluppo di questo settore, al pari degli altri settori del comparto agricolo, con una visione introiettata sulle proprie dinamiche interne, dimostrando un’attitudine a “giocare in rimessa” rispetto l’internazionalizzazione dei mercati. Le pressioni del mondo sulla nostra organizzazione, e le conseguenti politiche comunitarie, hanno già determinato esperienze dolorose per il lavoro nei settori del tabacco e dello zucchero che, come detto, non devono essere ripercorse.

Ciò nonostante, siamo consapevoli della tendenza flessiva del mercato europeo, a cui corrisponde la crescita di nuovi concorrenti extra-UE che si introducono nel Vecchio Continente con una quantità di vino praticamente pari a quella che esportiamo.

A questo corrisponde un calo dell’abitudine al consumo quotidiano proprio in quei paesi in cui il vino da secoli è stato parte integrante dell’alimentazione. Ma a questa tendenza corrisponde, di contro, l’aumento dell’abitudine al consumo quotidiano da parte di nuovi paesi ed il contemporaneo miglioramento della disponibilità economica di molti altri, con un conseguente aumento della propensione all’acquisto. Questo significa che c’è un potenziale mercato, ed anche di dimensioni crescenti, a cui andare a vendere i nostri vini.

Ma resta da considerare che l’Europa, al suo interno, è divisa tra paesi produttori e paesi consumatori, e che queste due aree hanno evidentemente interessi diversi in materia regolazione del mercato, che devono essere trattati in base alle rispettive specificità e priorità. In altre parole: il vino dei primi tre produttori (Italia, Francia e Spagna) e quello polacco di certo non hanno la stessa spendibilità sul mercato mondiale, e ciò deve determinare una politica del vino europeo che non vanifichi quella che di fatto è un’opportunità.

 

Inoltre la Comunità ha impiegato forti risorse per sovvenzionare la distillazione delle eccedenze allo scopo di sostenere i prezzi; ma ciò è stato probabilmente causa di fenomeni distorsivi di cui saremo destinati a soffrire le conseguenze in futuro.

In ogni caso, nella proposta di OCM l’interesse della UE continua ad essere concentrato sulla parte a monte della filiera, continua quindi a voler regolare i livelli produttivi solo come reazione alle pressioni contingenti, piuttosto che anticipare gli eventi. Ciò significa che alla debolezza imprenditoriale della maggior parte delle aziende italiane corrisponde la scarsa visione imprenditoriale della Comunità, nel senso che si viene condizionati dal mercato ma non si tenta di condizionarlo, nonostante se ne abbia la possibilità ed i mezzi.

 

Le simulazioni circa l’impatto della riforma radicale avrebbe ci dicono che i produttori saranno indotti a paragonare i flussi di reddito prodotti dall’attività vinicola con i contributi che gli verranno offerti per estirpare i vigneti (2,4 miliardi € per estirpare 400.000 ha in 5 anni), e che, dato lo scenario peculiare del nostro Meridione, l’espianto dei vigneti si concentrerebbe soprattutto al Sud d’Italia, indipendentemente dal valore socio-economico delle produzioni.

Non solo, considerata la contestuale apertura alla lavorazione di vini provenienti dall’estero, è prevedibile una forte spinta alla delocalizzazione della produzione, fenomeno, questo già drammaticamente galoppante in tanti settori dell’economia italiana, e purtroppo anche dell’agroaliementare, ma che diventerebbe una drammatica contraddizione con l’immagine del nostro vino, causerebbe condizioni di possibile dumping alle imprese radicate sul territorio, fino a ipotizzare la frode ai danni del consumatore. Sarebbe un danno di vastissima portata per tutto il settore, e più che mai per i nostri lavoratori (viene sempre più da chiedersi se l’Italia possa veramente essere un paese dove tutto si commercializza ma nulla più si produce, così come l’esperienza sindacale pare dimostrarci?).

Di certo non siamo “affezionati” a quelle imprese sfruttano i lavoratori, che drenano sussidi, non fanno qualità e non fanno sistema: non è questo tipo di aziende che devono perpetrarsi. Tuttavia l’urgenza con cui l’OCM vuole stimolare la riduzione del vigneto europeo non ci sembra troppo grossolana per distinguere ciò che merita da ciò che non merita l’abbandono.

 

In sintesi: se nei paesi NON produttori cresce il consumo quotidiano appare insensato che la UE contragga le produzioni, soprattutto nella fascia bassa, puntando solo sul segmento (IG) che sviluppa le minori potenzialità del mercato mondiale quando, invece Italia Spagna e Francia possono offrire un portafoglio completo. Non sarebbe invece più opportuno investire quei 2,4 miliardi di € per creare piattaforme logistiche in quei paesi piuttosto che per finanziare l’espianto delle viti!!!!!

 

l’OCM ipotizzata rischia oltretutto di modificare il paesaggio in modo radicale, con riflessi anche dal punto di vista degli ecosistemi, nei territori più esposti all’estirpazione ed all’abbandono (quelli più svantaggiati) con grave perdita anche dal punto di vista dell’identità storica.

 

 

PROPOSTE DELLA FLAI

 

·                  Tutto quanto segue ha come presupposto la rivalutazione del lavoro come valore etico nonché sociale e civile.

 

·                  Sarà necessario di diffondere il concetto di buona occupazione come fattore di sviluppo e di  governarne quantità, tempi, competenze e formazione (qualità) attraverso un approccio di filiera.

 

·                  Particolare attenzione, ovviamente, andrà posta a:

 

o       le tipologie contrattuali applicate ai lavoratori, che si articolano nei CCNL dei settori agricolo, commerciale, cooperazione agricola ed industriale, impiegati agricoli, industria alimentare:

o       le tipologie previdenziali ed assistenziali dell’agricoltura, del commercio, degli impiegati agricoli e dell’industria.

Ciò perché il lavoro nel comparto agricolo, e quello vitivinicolo in particolare, non sia considerato solo di transito in attesa di attività più “nobili” e remunerative. Le competenze create devono rimanere patrimonio del settore.

 

·                  Necessità di combattere il lavoro totalmente o parzialmente illegale, lo schiavismo e la criminalità, perché a lavoro dipendente illegale corrisponde attività economica illegale e dumping tra le aziende.

 

·                  Considerato che la OCM in ipotesi inciderà maggiormente laddove il tessuto delle imprese è più polverizzato (caratterizzato anche da un minor impiego di lavoratori dipendenti e da prevalente stagionalità), è necessario intraprendere azioni che stimolino i produttori, e non solo quelli meridionali, ad aggregarsi ed integrarsi in un percorso di filiera che recuperi un livello di redditività superiore al contributo all’abbandono offerto dalla OCM. Una simile evoluzione avrebbe ricadute positive, sia quantitative che qualitative, anche sull’occupazione dipendente. L’esperienza ci insegna che a maggiore dimensione aziendale corrisponde, statisticamente, un aumento del numero dei dipendenti ed una maggiore (sempre in termini relativi) stabilità dell’occupazione. Parallelamente diminuisce la propensione a ricorrere a forme irregolari di lavoro al paragone delle aziende piccole e piccolissime.

 

·                  E’ necessario prevenire gli effetti dell’OCM sulle distillerie, e quindi sulla relativa occupazione, pianificandone la riconversione ed il passaggio ad un regime non sostenuto solo a riconversione ultimata.

 

·                  Occorre cogliere l’opportunità offerta dalla focalizzazione sulla qualità e tipicità del prodotto ed il necessario ricorso a pratiche colturali  che richiedano una maggior manualità e quindi una più alta intensità di lavoro. La qualità è quindi una leva importante per la questione occupazionale. Ad esempio la tecnica della potatura verde, ipotizzata come misura per contenere le eccedenze, può consentire una riduzione della stagionalità. Ma molte altre pratiche peculiari ad alcuni vini o tradizionali per alcuni territori possono restituire lo stesso effetto se non sostituite da tecniche o tecnologie che sostituiscano l’uomo.

 

·                  Occorre favorire un’innovazione tecnologica (soprattutto dei macchinari) che si orienti a risolvere problemi di sicurezza sul lavoro (es. irrorazione dei trattamenti su terreni accidentati), o migliorare la qualità,  piuttosto che ridurre la manodopera (es.: aspirazione dell’uva)

 

·                  L’azione di lobbying italiana deve avere una visione d’insieme ed essere autorevole ed efficace.

 

·                  Occorre un legame chiaro e stretto con lo sviluppo rurale per favorire un’equilibrata attuazione della politica generale che traghetti il settore verso il nuovo assetto e tenga conto delle priorità strategiche dei territori e dei paesi membri.

 

·                  Adozione della certificazione etica da parte delle imprese come necessario punto di sintesi di istanze sociali che devono diventare parte integrante del marchio di qualità “Made in Italy” e “Made in Europe”:

o       Legalità;

o       rispetto dei diritti dell’uomo (che è ancora un carattere così fortemente distintivo rispetto a larga parte del mondo!);

o       rispetto dei contratti;

o       sicurezza e salubrità del lavoro;

o       sicurezza e salubrità alimentare;

o       rispetto del consumatore.

Tale certificazione deve essere requisito indispensabile per l’ottenimento dei fondi.

 

·                  E’ necessario un approccio comune dei paesi UE, soprattutto dei maggiori produttori. La commercializzazione del vino dovrebbe avvenire attraverso una sorta di marchio del “Vecchio Continente” in modo che le diverse caratteristiche dei vini contribuiscano a formare un portfolio segmentato capace di soddisfare tutte le tipologie di consumo. In pratica, una sorta di ombrello che riunisca sotto di sé le etichette dei territori. In questo quadro i grandi vini (altissima fascia di prezzo) sarebbero il veicolo d’immagine del prodotto europeo.

 

·                  Occorre diffondere la cultura del consumo di vino, sia nei paesi di antica tradizione, che nei nuovi consumatori come parte integrante della “dieta mediterranea” da assumere con il necessario equilibrio dovuto a tutti gli alimenti che quotidianamente assumiamo.

 

·                  La qualità deve essere sempre elevata, a partire dalla più bassa fascia prezzo.

 

·                  Il punto di sintesi tra i tre paesi produttori e paesi consumatori sarà quindi l’interesse del consumatore: è necessario che l’etichettatura sia chiara, oggettiva, e garantista, che risponda quindi al diritto di chi consuma ad essere informato non solo sulla provenienza, ma anche sulle pratiche utilizzate per produrre quel vino (sia che esso provenga dall’Unione, sia che provenga da fuori) e sulla stessa composizione.

 

·                  E’ altresì diritto di chi consuma poter contare su una denominazione di origine che corrisponda in modo stringente al luogo di produzione, e che il legame con il territorio sia saldo e affidabile, limitando così gli spostamenti della materia prima, tra vigneti e cantine anche molto distanti tra loro.

 

·                  A proposito delle nuove pratiche enologiche, quali ad esempio l’utilizzo dei trucioli, riteniamo che siano scorciatoie dannose sia per l’immagine del nostro vino (di certo l’idea di un liquido in cui galleggino trucioli di legno non evoca immagini altrettanto gradevoli delle botti!) ma c’è da chiedersi se questa pratica non deprima anche in questo caso il lavoro, quantomeno quello dei bottai.

 

·                  Occorre sfruttare la complementarietà tra aziende (piccole, medie o grandi) che si rivolgono a mercati diversi. Sarebbe un errore fare una politica omologante.

 

·                  Vanno difese quelle produzioni piccole (“eroiche”  o gioielli locali), che non hanno possibilità di affrontare il mercato, ma che hanno grande valore storico-culturale-qualitativo (integrazione con sviluppo rurale).

 

·                  Occorre vigilare perché gi investimenti di aziende extra-europei nel nostro paese non snaturino le caratteristiche delle nostre produzioni tipiche.

 

·                  Occorre migliorare il valore aggiunto delle produzioni del Sud Italia (meno vino sfuso, utilizzo di denominazioni/disciplinari, etc.)

 

·                  Necessità di promuovere l’export dei nostri vini in modo efficace: ovvero non limitandosi a pubblicità e fiere, ma aiutando le imprese a portare il vino là dove vogliamo che cresca il consumo: sostenerle e sinergizzarne le energie in un momento in cui i volumi, nella fase propulsiva di apertura dei mercati,  potrebbero non remunerare l’investimento dei singoli produttori (poche bottiglie, slow-moving, costi di stoccaggio e movimentazione, varietà e complessità della burocrazia, corruzione, etc.).

 

·                  Laddove l’estirpazione dovesse danneggiare gravemente il paesaggio, la distillazione di biocarburante potrebbe costituire un’alternativa alla produzione a scopo alimentare. Stesso utilizzo potrebbero avere gli scarti di produzione.

 

·                  E’ necessario che organizzazioni di produttori e consorzi acquisiscano una visione di sistema complessiva e si adoperino fattivamente ad orientare i loro associati in modo coerente e funzionale agli obiettivi della collettività.

 

 

 

Roma, 29 Gennaio2007.