SEMINARIO DELLA FLAI NAZIONALE


 



SEMINARIO DELLA FLAI NAZIONALE

“LA CONTRATTAZIONE DELLA SICUREZZA

ALIMENTARE – DEL LAVORO – DELL’AMBIENTE

 NEI SETTORI AGROALIMENTARI”.  

ROMA 27 e 28 GIUGNO 2001

RELAZIONE DI

FELICE MAZZA,

Responsabile nazionale Dipartimento Sicurezza  Alimentazione Ambiente e Territorio

su

 Ambiente e Sviluppo Sostenibile

Premessa

La tutela ed il miglioramento dell’ambiente, intendendo per tale lo stato ecologico del territorio, sono condizioni imprescindibili ai fini:

-         della qualità della vita e della varietà umana, animale e vegetale;

-         della sicurezza del territorio dai rischi derivanti dal clima o dall’azione umana;

-         dello sviluppo sostenibile delle attività umane nel lungo periodo;

-         della qualità e della fruibilità dei terreni dedicati alle produzioni agricole ed agroindustriali;

-         della qualità, dell’igiene e della sicurezza alimentare dei prodotti agroalimentari;

-         della qualità della vita e del lavoro di chi opera in queste attività.

 

L’esperienza

L’esperienza sindacale di contrattazione, in tema di tutela ambientale, è segnata da una serie d’esperienze eccessivamente variegata, nel senso che a rare, benché significative, esperienze corrisponde ancora una diffusa superficialità se non indifferenza.

La questione ambientale è stata vissuta, per molti anni, dalle aziende, dai sindacati e dai lavoratori, come una sorta di attacco alle attività produttive e all’occupazione. D’altro canto, l’atteggiamento aggressivo dei movimenti ambientalisti non ha facilitato il dialogo e la riflessione.

L’atteggiamento istituzionale è stato spesso ondivago e poco responsabile, in altre parole poco attrezzato e restio a fare le debite pressioni necessarie a costruire adeguati a percorsi consensuali e partecipativi, mentre si è rivelato piuttosto incline a regolamentare l’argomento con leggi di comando e controllo, al fine di mettersi al riparo da eventuali “responsabilità”, ma tralasciando poi di costruire il controllo necessario per dimostrare la volontà di indurre, i soggetti interessati, a comportamenti corretti.

Il limite culturale e politico è prodotto da un’antica concezione dell'interesse economico, purtroppo, assecondato dalla scuola. I gruppi dirigenti, pubblici o privati, nazionali e non solo, sono ancora formati secondo princìpi che considerano il rispetto della sicurezza e dell'ambiente un costo per le aziende, da esternalizzare a carico della collettività.

Dal 1905, quasi un secolo fa, il pensiero economico ha analizzato questo fenomeno; ma per elaborare risposte adeguate è rimasto in attesa di una sensibilità scientifica, sociale e politica che si è andata verificando, con lentezza e contrasti immensi, solo dagli anni '60 e grazie all'impegno dell'ONU.

 

Gli esiti

Le potenzialità negative di questi princìpi si possono vedere in concreto. La spesa pubblica nazionale, sia in materia di sanità generale, connessa alla previdenza, per infortunio o malattia professionale, sia in materia di ambiente per disastro ecologico (alluvione, frana, incendio, inquinamento), è costantemente cresciuta.

La competitività, in un mercato globale peraltro senza regole, poggia quasi esclusivamente, sul parametro dell'abbattimento dei costi. Ora, sapendo che nel mercato globale si rileva la presenza, economicamente aggressiva, di paesi o aree continentali che ammettono lo schiavismo e tendono ad esportarlo, anziché proporsi di cambiare questo fenomeno è stato più facile mettersi a competere con gli schiavisti.

Poste queste premesse, i gruppi dirigenti così formati non potevano che orientarsi alla destrutturazione dei diritti dei lavoratori dei paesi industrialmente forti e con una solida protezione sociale.

Il problema, comunque, non sta nel mercato globale in sé, ma nel fatto che esso non è correttamente regolato. Le contestazioni al G8 e alle sessioni dell’OMC attirano l'attenzione dei mass media, ma la questione rilevante, che spaventa chi ha goduto finora dei benefici del mercato senza regole, sta nel fatto che alcuni importanti paesi, quali l’Europa e la Cina, esprimano la volontà di dare al mercato globale le regole necessarie a stabilire le condizioni minime di civile convivenza e a sanzionare chi non le rispetta.

 

L’Unione Europea

L'Unione Europea ha dimostrato a lungo molta attenzione al proprio mercato interno e alla libera circolazione delle merci ma li ha subordinati sempre alla concorrenza leale, che implica il rispetto delle regole sociali. Oggi, addirittura, subordina questi temi sia alle politiche di tutela ambientale, sia a quelle per la sicurezza nei luoghi di lavoro e, prossimamente, anche a quelle per la sicurezza alimentare.

Essa ha tutto l'interesse a sostenere questi orientamenti, avendone fatto motivo di impegno fondamentale delle proprie politiche. Né abbiamo motivo di pensare che essa non si senta impegnata in questa direzione, tanto più dopo la deliberazione dei diritti fondamentali dei cittadini concordati a Nizza.

Il sesto programma europeo per l’ambiente è frutto di un lungo impegno in materia. Siamo, infatti, ad oltre diciotto anni dal primo. A questo proposito, ritengo utile una breve rilettura delle vicende ambientali degli ultimi trent’anni.

 

Trent’anni di storia per l’ambiente

Il contributo dei Paesi europei fu forte già nella prima conferenza mondiale di Stoccolma, nel 1972, quando per la prima volta il mondo intero prendeva atto della crisi ambientale. In quell’occasione si stabilì che ogni Stato dovesse:

-         emanare leggi di comando e controllo per reprimere l’inquinamento di aria, acqua e suolo;

-         sostenere l’informazione dei cittadini sullo stato dell’ambiente e sull’utilità di assumere comportamenti corretti e responsabili, anche di denuncia degli inquinatori;

-         organizzare sistemi di depurazione delle acque reflue, di smaltimento dei rifiuti di depurazione delle emissioni atmosferiche;

-         proteggere le aree naturali.

I ritardi e l’inefficacia delle normative, il taglio allarmistico e intermittente dell’informazione, l’atteggiamento di indifferenza del mondo produttivo, il modello consumistico delle società ricche, l’espansione urbana, la crescita esponenziale della popolazione, l’uso eccessivo delle fonti energetiche fossili, hanno procrastinato la presa di coscienza della gravità dello stato dell’ambiente.

L’atteggiamento aggressivo dell’ambientalismo era, in questo senso, giustificabile; tuttavia, dall’analisi di questi ed altri fenomeni, esso ha assunto una questione: il problema dell’aggravamento dell’ambiente è causato dallo sviluppo economico, ergo, è necessario fermarlo partendo dalle cause più gravi. E così, l’ambientalismo ha usato la contestazione sociale che, avendo riflessi sulla politica, ha sospinto le istituzioni verso decisioni sempre più stringenti.

Negli anni ’80 si è diffusa una contestazione sociale così forte da mettere in crisi parti rilevanti delle attività economiche in molti territori. Ne è derivato un impegno delle istituzioni e delle associazioni imprenditoriali a livello mondiale, tendente a ricercare la soluzione dei problemi. E’ stata, infatti, ancora l’ONU, nel 1987, con la commissione per lo sviluppo e l’ambiente presieduta dalla signora Brundtland, a trovarla proponendo l’idea dello sviluppo sostenibile.

 

Lo sviluppo sostenibile

Questa idea, consacrata nella seconda conferenza mondiale per l’ambiente tenuta Rio de Janeiro nel 1992, non va vista semplicemente come compromesso tra sviluppisti e antisviluppisti, che potrebbe allora essere vissuto come un effimero armistizio tra parti avverse.

Piuttosto essa è lo stato di avanzamento della coscienza collettiva di quanto rappresenti l’ambiente negli interessi dell’intera umanità. Per questa via, infatti, si è scelto di subordinare lo sviluppo alla sua sostenibilità da parte dell’ambiente. In questo senso anche l’occupazione è una subordinata. E d’altro canto, ci è chiaro che un posto di lavoro che fa i conti con le esigenze dell’ambiente è più difendibile di uno che se ne infischia.

Il contributo dato dall’Unione Europea, sia alla formazione della risoluzione della commissione Brundtland, sia alla sua affermazione nella conferenza di Rio, è stato molto più significativo ed importante che in passato, assumendo anche posizioni in contrasto con gli interessi USA.

La questione del Protocollo di Kyoto ne offre ampia dimostrazione. Non si tratta, però, di un atteggiamento teso a danneggiare un Paese, bensì a fargli assumere maggiore responsabilità sull’argomento. D’altronde, anche se il governo USA non firmasse, le sue maggiori aziende, non petrolifere o del carbone, hanno già scelto, liberamente e volontariamente, politiche di risparmio energetico o di fonti energetiche alternative meno costose, che vanno appunto nella direzione delle politiche del Protocollo.

L’atteggiamento europeo deriva, infatti, dall’accumularsi di esperienze di grande valore in ogni campo, anche grazie a nuove idee sul da farsi e a tecnologie più avanzate in ogni campo. Ma, soprattutto, con l’affermarsi di un pensiero nuovo derivante dalla pratica costante di un principio: se è l’attività che crea il problema, l’attività stessa può risolverlo.

L’esperienza dei programmi triennali per l’ambiente ha dato, in questo senso, molti risultati in Europa. E il sesto programma contiene ipotesi di lavoro non più solo orizzontali (vale a dire tematiche riguardanti tutti, come: rifiuti, acqua, aria, etc.) ma anche verticali (tra queste spiccano: l’industria, l’agricoltura, il turismo) e territoriali (il Mediterraneo, le aree protette, etc.). 

L'impianto della proposta europea, per la tutela ambientale dall'impatto delle attività produttive, richiama i princìpi ispiratori dei sistemi adottati nelle politiche per la prevenzione dai rischi in materia di sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro e di sicurezza alimentare.

La struttura di queste politiche è finalizzata a rispondere complessivamente alle logiche dello sviluppo sostenibile. Il nesso si colloca nella valutazione dei rischi, nel piano di sicurezza e nel programma di miglioramento.

Tali logiche esigono, come base minima, il rispetto delle norme di sicurezza e, come volontario valore aggiunto, l'avvio di un processo di miglioramento continuo che travalichi i limiti delle norme e si predisponga a raggiungere obiettivi di qualità progressivamente più elevati. A questi fini si utilizza l'ausilio sia dell'analisi del rischio, dell'individuazione delle misure di prevenzione e protezione, della programmazione degli interventi e della verifica della loro efficacia, sia della partecipazione dei soggetti interessati, interni ed esterni all'attività dell'azienda.

I differenti obiettivi specifici si connettono tra loro poiché l'oggetto dell'intervento è lo stesso: l'organizzazione del sistema produttivo, l'organizzazione del lavoro di ogni singola azienda e il loro rapporto con l'ambiente (sito, territorio e risorse) e la società.

Le coerenze strutturali di queste politiche, però, andrebbero supportate anche dall'armonizzazione dei sistemi specifici di comunicazione, informazione e linguaggio, al fine di consentire la connessione delle diverse analisi del rischio e la contestualità operativa degli interventi, unificando e semplificando il più possibile le procedure e gli adempimenti.

 

Il problema dei costi.

Generalmente, di fronte alla fluente dinamica evolutiva delle politiche europee di sicurezza e tutela, le organizzazioni imprenditoriali italiane tendono a sottolineare la specificità del sistema produttivo nazionale, caratterizzato da una diffusa presenza di piccole e piccolissime imprese.

I dati di Unioncamere, secondo Confindustria, classificano l'85% delle aziende industriali al di sotto dei 50 dipendenti, il 12% al di sopra dei 51 dipendenti e fino a 200, mentre solo il 2,5% sarebbe superiore a 201 dipendenti e oltre. Per le aziende agricole il dato è di gran lunga inferiore. A questo aspetto viene affiancato un secondo campo di temi, quelli della pressione fiscale e contributiva. 

Poste queste premesse, chiedere a questo sistema imprenditoriale semplicemente di reinternalizzare i costi della sicurezza e della tutela, così come pure postulano le norme comunitarie, potrebbe apparire velleitario.

Sottolineato che, non da oggi, ci siamo già fatti carico del problema, ci sentiamo di dire che siamo disponibili alla possibilità di verificare insieme i modi e i tempi di una politica costruttiva in materia. Gli accordi interconfederali dal 1993 in avanti, e da ultimo l'accordo interconfederale con la Confapi, sia pure su materie diverse, ne sono evidente dimostrazione.

In questa chiave, e con le necessarie aperture ai diversi soggetti, pubblici e privati, economici e sociali interessati ai temi dell'ambiente, della sicurezza nei luoghi di lavoro e della sicurezza alimentare, il problema dei costi si porrebbe su basi tutt’affatto differenti da quelle precedentemente esaminate.

Laddove l'avvio di queste politiche fosse concreto e comportasse risultati di effettivo miglioramento, i benefici economici per la spesa pubblica e la minore pressione degli oneri fiscali e previdenziali per le imprese, potrebbero essere parzialmente riconvertiti ai fini di una politica di servizi di supporto e di incentivi premiali per le imprese, le filiere o i territori che realizzassero le migliori politiche preventive o di ripristino ambientale.

Occorre però far funzionare gli strumenti operativi già individuati ed allestire presto i nuovi e specifici.

 

Il territorio

L’idea dello sviluppo sostenibile, applicato all’agricoltura e all’industria alimentare, è un modello di sviluppo che implica la capacità di valutare le potenzialità e le criticità del territorio e la sostenibilità nel tempo dello sviluppo delle attività in esso intraprese.

Il senso del limite è rivolto alla capacità, da un lato di evitare la distruzione di risorse, e dall’altro di realizzare la loro valorizzazione. Nessuna attività umana è potenzialmente più in grado di realizzare questi risultati di quanto possano fare l’agricoltura e l’industria alimentare.

Possono diventare strumenti fondamentali per una nuova politica di sviluppo, caratterizzata dalla sostenibilità ambientale del settore nel tempo, i distretti rurali e i distretti agroalimentari.

I distretti rurali sono aree che presentano un’identità storica e territoriale omogenea derivante dall’integrazione fra attività agricole o di pesca e altre attività locali, e caratterizzate dalla produzione di beni o servizi di particolare specificità, funzionali o aggiuntivi a tali attività, ma sopratutto coerenti con le tradizioni locali e le vocazioni naturali del territorio.

I distretti agroalimentari sono le zone geografiche caratterizzate da una significativa presenza economica e dall’interazione e dall’interdipendenza produttiva delle imprese agricole e agroindustriali.

A questi ambiti vanno applicate particolari attenzioni dalle politiche istituzionali. Le istituzioni vanno quindi sollecitate ad assumere misure adatte allo scopo di:

-         favorire la crescita di servizi finalizzati al sostegno del sistema distrettuale;

-         sollecitare e sostenere l’orientamento organizzativo all’integrazione delle politiche produttive tra aziende e aree agricole, da un lato, e aziende e distretti agroindustriali, dall’altro;

-         sollecitare le aziende del territorio a caratterizzare la tutela ambientale dei siti e delle aree dedicate all’agroalimentare attraverso l’adozione del sistema di certificazione EMAS di sito e di territorio.

-         difendere i siti e le aree dedicate all’agroalimentare, comunque denominate, da inquinamenti ed interferenze esterne, anche esercitando il necessario controllo sulle emissioni idriche e atmosferiche e sugli scarti o rifiuti.

Occorre, tuttavia, richiamare la vostra attenzione su tre temi che non compaiono mai nelle  discussioni sullo stato dell’ambiente nei settori agricoli e agroindustriali, vale a dire:

-         le aziende sottoposte alle norme per la tutela dei cittadini dai rischi di incidente industriale rilevante;

-         le aree a rischio di crisi ambientale, inquinate dalle lavorazioni agroindustriali e sottoposte a bonifica;

-         i terreni agricoli utilizzati male, vale a dire, da un lato mal curati dalle aziende, dall’altro usati quali discariche, per lo smaltimento dei rifiuti di varia origine.

Questi possono essere motivi non espliciti di atteggiamenti negativi in materia di sperimentazione di programmi di miglioramento ambientale. E’ bene che il sindacato territoriale verifichi come stanno le cose e, ove ricorrano le condizioni, si preoccupi di ottenere opportune informazioni sullo stato dei programmi di miglioramento ovvero sui piani di sicurezza, rivolgendosi alle associazioni imprenditoriali ed alle istituzioni locali preposte, e successivamente di far richiedere, da parte del RLS, le informazioni specifiche e dettagliate direttamente all’azienda interessata.  

 

La certificazione EMAS:

a)      di sito è una scelta forte in grado di offrire ampie garanzie sulla qualità del lavoro, dei prodotti, del processo produttivo, dei consumi e del rapporto col territorio praticati dall’azienda.

Infatti, questo sistema di certificazione, a differenza di qualsiasi altro, prevede tre elementi fondamentali:

1)     l’iscrizione nella rubrica pubblica dei siti certificati (ANPA: il mancato rispetto delle procedure o l’incapacità di raggiungere i parametri ambientali prefissati ne causa la cancellazione);

2)     il controllo pubblico periodico continuo (le dichiarazioni dell’azienda devono risultare rispondenti al vero, altrimenti può esserci l’intervento del magistrato penale);

3)     il coinvolgimento dei rappresentanti sindacali e la partecipazione dei lavoratori.  

b)      di territorio, resa possibile dalle modifiche ottenute dall’Italia, nell’ambito delle politiche europee, per aiutare il proprio apparato produttivo a migliorare le performance ambientali, è già stata applicata per distretti industriali più invasivi, quali quelli della chimica, e per il distretto industriale tessile di Prato

Sembra poco credibile che non si possa fare di più e probabilmente meglio in nei settori agroalimentari, tanto più per due motivi: da un alto per l’alta garanzia che un simile sistema di certificazione offre a livello europeo e mondiale per i prodotti e per il nome del territorio, dall’altro in quanto l’EMAS di territorio ha un percorso più lento e prevede possibilità di servizi e incentivi di sostegno.

Sono note, peraltro, posizioni delle organizzazioni imprenditoriali, in merito all’ambiente e alla sicurezza, che in linea generale non solo non contrastano con quelle che abbiamo qua esposte ma in molti casi sono tema di impegno unilaterale e in alcuni sono già programma di realizzazione. Occorre individuarle e contrattare un ruolo partecipativo dei lavoratori e delle loro rappresentanze in queste realtà, ma anche espandere l’iniziativa.

Nei casi di resistenza delle controparti che non abbiano ancora intenzione di praticare queste politiche, ma ancor di più ove si tratti di inesperienza, è opportuno adottare inizialmente sistemi meno complessi e vincolanti di EMAS, quali ISO, UNI o simili.

Infatti, per allargare il fronte delle aziende interessate è necessario utilizzare atteggiamenti e strumenti idonei quali, ad esempio, il metodo applicato nella risoluzione dell’ipotesi di accordo per il 2° biennio del CCNL dell’industria alimentare, che impegna le parti ad esperire in tutte le aziende agroindustriali una procedura di risk assessment in materia di sicurezza alimentare, evitando l’indisponibilità degli interlocutori e l’isolamento di quelle aziende che invece hanno aderito volontariamente alla dichiarazione d’intenti sottoscritta dalle parti al CNEL e riguardanti le filiere ortofrutta, latte, carne e pesce.

 

Come agire contrattualmente.

1) Attribuire al RLS/RSU il diritto di chiedere, nell’ambito dei diritti d’informazione, il “bilancio ambientale”, che dovrà essere reso pubblico dall’azienda e che deve contenere almeno:

-         i consumi di materie prime, di acqua, di energia, di materie e/o sostanze aggiuntive;

-         i risultati produttivi;

-         gli scarti;

-         l’uso e la qualità degli impianti e dei macchinari.

In ogni caso è bene chiedere formalmente notizie anche sui casi di rischio rilevante e di sito inquinato, sia come fatto specifico che come partecipe di un’area a rischi ambientale.

2) Definire accordi aziendali finalizzati alla tutela ambientale nel sito produttivo. In questi casi si può cominciare:

-         dal trattamento delle acque, finalizzato al riuso;

-         da quello dei rifiuti, finalizzato al riciclo, all’uso come ammendanti agricoli o destinati alla produzione di energia;

-         dal risparmio energetico o dall’efficienza energetica degli impianti e dei macchinari.

 

In agricoltura è già attiva una disponibilità delle aziende agricole a farsi carico della tutela ambientale dei propri siti e del territorio circostante. 

3) Definire impegni territoriali per richiedere congiuntamente alle Regioni di individuare e codificare gli ambiti di distrettuali (rurale o agroalimentare) in applicazione anche dell’articolo 13 (Distretti rurali e agroalimentari di qualità) del Decreto Legislativo 18 maggio 2001, n. 228.

4) Analoghi impegni vanno definiti per l’applicazione dello stesso D.Lgs 228/01 rispetto:

-         all’articolo 21, riguardante “Norme per la tutela dei territori con produzioni agricole di particolare qualità e tipicità”;

-         all’articolo 3, riguardante “Attività agrituristiche”.

5) Definire accordi di concertazione triangolari, con le istituzioni locali e regionali, le associazioni imprenditoriali e noi (coinvolgendo le strutture confederali), in materia di OGM, manipolazione genetica dei prodotti  alimentari e degli animali.

6) Prevedere accordi sulla formazione riguardanti sia le relazioni tra i soggetti, sia la professionalità degli addetti.