Sicurezza alimentare e consumatori, tra nuove biotecnologie e sviluppo dell’agricoltura biologica

 

Di Giorgio Schifani

Dipartimento di Economia dei Sistemi Agro Forestali

Università degli Studi di Palermo

 

Il fatto che oggi, soprattutto in Europa, dove vi è una storia e una cultura alimentare antica e ricchissima, si sia sollevato il problema della qualità dell’alimentazione in termini di sicurezza, ci impone di riconsiderare, come elemento centrale, la questione agricoltura in un’ottica complessiva.

La breve analisi che seguirà, non vuole negare gli indubbi benefici di cui il settore si è giovato durante il corso del suo sviluppo, grazie alle conoscenze acquisite in campo tecnologico, agli investimenti fatti in agricoltura, alla diffusione di tecniche più razionali per esempio nel campo dell’irrigazione, della meccanizzazione, ecc., e agli effetti che queste modifiche hanno comportato soprattutto per quanto riguarda la maggiore disponibilità di cibo per la popolazione del pianeta.

Le diete si sono arricchite dal punto di vista proteico e calorico, parametri usati per misurare la bontà degli interventi, la produttività è cresciuta in maniera gigantesca; oggi, nonostante il miliardo e duecentomilioni di poveri sottonutriti, nel mondo si produce tanto da potere sfamare una popolazione superiore di 400 milioni di individui a quella esistente.

Ma quale è stato il livello qualitativo dei prodotti che sono stati realizzati in tutti questi decenni? Di che cosa ci siamo finora nutriti e di che ci continuiamo a nutrire, e a quale prezzo per la salute e l’ambiente? Come mai, proprio dal settore agricolo, che dovrebbe rappresentare l’anello di congiunzione del rapporto uomo-natura, si avvia il processo di crisi dell’alimentazione nei paesi a economie sviluppate?

Per comprendere i problemi, e potere dare delle risposte a queste domande, è necessario fare un piccolo passo indietro e ricostruire brevemente lo scenario all’interno del quale le imprese che producono operano e sono state indirizzate ad operare, e come questo abbia influenzato la qualità e la sicurezza delle loro produzioni, soprattutto quando si parla di prodotti per l’alimentazione.

Il problema della sicurezza alimentare, che come vedremo è particolarmente complesso, ci porta da una parte a riflettere sui metodi di produzione industriale che caratterizzano buona parte dei processi agricoli, dall’altra, forse, a riconsiderare criticamente il modello stesso che è stato perseguito nei paesi a cosiddetta economia avanzata, come il nostro.

 

A questo proposito, molto schematicamente, è possibile fare alcune relazioni:

 

 

 

Sicurezza alimentare equivale a qualità degli alimenti. Questa, a sua volta, dipende direttamente dai processi di produzione agricola che sono determinati dalle scelte dell’imprenditore all’interno dell’azienda-impresa agricola, e che in questi ultimi decenni sono stati fondamentalmente caratterizzati dalla ricerca del massimo profitto, in un “ambiente macroeconomico”, rappresentato dal modello della libera concorrenza, andato incontro ad una trasformazione che si è spinta sempre di più verso la totale liberalizzazione degli scambi, e la circolazione libera e globale di merci, lavoro, capitali e servizi.

Le radici del problema vanno dunque ricercate all’interno di un “progetto” complessivo, di un modello di sviluppo in cui si è privilegiato l’aspetto quantitativo e del profitto, piuttosto che quello della qualità e del benessere sociale.

Dunque, i problemi della sicurezza sanitaria e della qualità dei prodotti alimentari esistono da alcuni decenni, prima ancora erano soprattutto di carattere igienico, e non sono per nulla nuovi, ma riconducibili alla “modernizzazione” del settore agricolo.

 

Cos’è l’agricoltura oggi

Quando si parla di agricoltura, oggi ci si riferisce ad un complesso di interrelazioni che comprende la produzione agricola, l’industria di trasformazione e in particolare per la sua importanza l’industria agro-alimentare, i servizi connessi alla filiera dei prodotti, in tutte le fasi, la gestione di importanti risorse naturali quali terra, acqua, biodiversità, la qualità dello spazio rurale, la sicurezza alimentare appunto.

Non si intende più, quindi, il solo settore agricolo legato alla produzione, l’agricoltura tradizionale di un tempo, ma un vero e proprio “sistema” misto, che entra quotidianamente in rapporto con la popolazione rurale e con quella urbana, attraverso il consumo degli alimenti, con problematiche che si sono allargate alla sfera dell’industria, dei servizi, dei trasporti, dell’ambiente, della qualità della vita, ecc.

Questo processo di ristrutturazione, guidato dalle politiche agricole nazionali in una prima fase e comunitarie in seguito, ha fortemente penalizzato l’agricoltura tradizionale perché ritenuta poco produttiva, ad eccessiva intensità di lavoro, perché soprattutto poco competitiva e non funzionale a un mercato via via sempre più globalizzato così come si configura oggi.

 A quale agricoltura è oggi affidata la produzione di alimenti in paesi come il nostro (problemi gravissimi, in parte diversi, affliggono tutto il pianeta)?

Agli osservatori, l’agricoltura offre oggi uno scenario profondamente diverso dal passato: semi distrutta l’agricoltura tradizionale, agli estremi abbiamo da una parte un settore emarginato e marginale, all’interno del quale il tessuto e la cultura contadina sono sopravvissuti a brandelli, e che produce prevalentemente facendo largo ricorso agli imput chimici, mentre l’altra faccia è rappresentata da un’agricoltura altamente integrata nella filiera industriale, organizzata commercialmente nella GDO, ad altissima intensità di input chimici, perfettamente funzionale alle società consumistiche, dove le aziende sono costrette per sopravvivere a conseguire il massimo profitto, anche a discapito della salute pubblica e dei lavoratori, del depauperamento delle risorse naturali, dell’espulsione dei lavoratori dal settore.

Un percorso evolutivo che ha determinato, di fatto, un abbassamento della qualità dei prodotti, avvenuto in maniera direttamente proporzionale all’evoluzione in senso moderno-industriale del settore.

Evidenti segnali sulla gravità delle condizioni di sicurezza alimentare e della sicurezza dei cibi non sono certo nuovi, e colpisce quasi più delle emergenze stesse la preoccupazione stupita dei consumatori di fronte ai recenti e meno recenti scandali alimentari; non bisogna dimenticare oltre alla BSE, i polli alla diossina, il famoso “latte di Cernobyl, l’olio di colza che in Spagna provocò 42 morti, le patologie dovute all’assunzione di pesticidi, all’accumulazione di metalli pesanti, i rischi collegati all’utilizzo delle nuove biotecnologie dell’ingegneria genetica, le malattie degenerative legate agli alimenti, le gravissime epidemie come quella di questi giorni dovuta all’afta epizootica, che anche se colpisce soltanto gli animali sottolinea la vulnerabilità degli allevamenti intensivi-industriali.

Ancora oggi, ci fa sapere Legambiente, il 40% dei prodotti ortofrutticoli contiene residui di pesticidi, il 30% contiene residui con più di un principio attivo, e un campione su 50 è fuori legge.

Un’improvvisa presa di coscienza rispetto ad un passato dove l’inquinamento chimico dei cibi era sottovalutato, poco conosciuto e dibattuto, superficialmente considerato un male tutto sommato accettabile, in nome di un poco chiaro concetto di sviluppo e progresso (Un caso evidente di contraddizione interna al modello di sviluppo neoloberista è quello dell’India, dove una considerevole parte della popolazione, per la maggior parte contadini che producono riso, vive in povertà e non riesce a nutrirsi sufficientemente. L’anomalia risiede nel fatto che in India, fino a qualche tempo addietro, la produzione di riso era insufficiente a garantire il soddisfacimento del fabbisogno interno, mentre oggi il Paese è un forte esportatore per gli investimenti delle multinazionali e per l’industrializzazione della filiera; il problema dei contadini è che non guadagnano a sufficienza per acquistare il riso necessario, elemento che evidenzia come anche in presenza di un incremento della Plv del comparto (maggiori produzioni) e del Va (produzione di ricchezza nel comparto), ed eventualmente anche del reddito medio procapite, considerati ancora indicatori di sviluppo economico per eccellenza, la distribuzione della nuova ricchezza prodotta è orientata di gran lunga verso le aziende, andando a remunerare sostanzialmente il capitale piuttosto che il lavoro).

Di là dalle emergenze, che creano motivato panico, crollo dei mercati e crisi nei settori, va ricordato che gran parte delle produzioni agricole “convenzionali” sono state e sono ancora in parte a “rischio salute”, soprattutto quelle orientate al mercato di massa e quelle sottoposte a trasformazione industriale, ricche di additivi, conservanti, coloranti, ecc.

Ma anche l’”altra agricoltura”, in gran parte sopravvissuta malamente, non offre garanzie sufficienti; in molti casi è più facile sfuggire ai controlli o fare un uso non appropriato di prodotti a rischio per il singolo agricoltore (anche per mancanza di sufficienti conoscenze) che per l’industria.

Entrambe, in ogni caso hanno abbondantemente abusato nei trattamenti con pesticidi, erbicidi, fertilizzanti, ecc., spesso con la piena legittimazione di una legislazione carente, e nella maggior parte delle occasioni in regime di proroga rispetto alla normativa comunitaria.

Non è un caso che i prodotti destinati all’esportazione siano stati, e in parte lo sono ancora, molto più sicuri di quelli autorizzati alla vendita nel mercato italiano.

Pur di non penalizzare la produttività delle nostre aziende, pur di non diminuire i loro profitti e quelli dell’industria agrochimica, ci siamo nutriti anche di prodotti che sono stati rifiutati dai nostri partner europei.

Ma la maggior parte dei mali è comune. In Italia come all’estero è consentito ancora l’uso di innumerevoli farmaci: nel caso dell’allevamento si ricorda il massiccio uso di antibiotici, utilizzati non soltanto a scopo profilattico o terapeutico, ma anche auxinico, cioè per stimolare la crescita degli animali, il frequente uso di metabolizzanti, anche fuori legge, come ad esempio il DES (dietilstilbestrolo), altamente cancerogeno, o il testosterone e il progesterone, solo per citare i più noti, spesso associati a cortisonici, ma anche gli inibitori della tiroide, utilizzati allo scopo di provocare ritenzione idrica per ottenere incrementi di peso.

Ai suini si è arrivati a dover somministrare massicce dosi di tranquillanti, poiché la selezione per creare soggetti con massa muscolare particolarmente sviluppata li rende più sensibili allo stress.

Questo per rimanere ad alcune “tecniche” utilizzate negli allevamenti industriali, dove si tende a ridurre la vita degli animali circoscrivendola ad un ciclo produttivo sempre più intenso esaltando, oltre natura, le loro capacità biologiche produttive.

Per quanto riguarda l’alimentazione a base di farine animali, il solo fatto di aver reso carnivori degli erbivori, non necessita di ulteriori commenti.

 

Le nuove biotecnologie e i rischi per la sicurezza alimentare

Un’altra categoria di rischi deriva dall’utilizzazione, anche in agricoltura, di organismi geneticamente modificati, le nuove varietà OGM nate per continuare la discutibile esperienza delle varietà ad alta resa produttiva diffuse nel periodo della cosiddetta “Rivoluzione Verde”.

Senza dilungarmi sui vari argomenti in cui può essere scomposta la questione OGM (rischi biodiversità, inquinamento genetico, proprietà intellettuale del vivente, aspetti bioetici, concentrazione del grande capitale trasnazionali, riconversione dell’industria chimica, farmaceutica, e sementiera, interessi corporativi legati alla ricerca, ecc.), e mantenendomi all’interno dei confini “agricoli” della questione, ricordo semplicemente il livello di incertezza scientifica che contraddistingue l’attuale fase della ricerca (prevalentemente svolta dai privati), che non consente di affermare con nessun margine accettabile di certezza la sicurezza alimentare dei prodotti derivati dall’utilizzo di VGM.

Del resto, la recente e tanto attesa mappatura del genoma umano, anche se rappresenta sicuramente un passaggio conoscitivo importante nel campo della genetica, ha evidenziato soprattutto gli enormi limiti di conoscenza dei complessi meccanismi di regolazione biologica e di funzionamento della molecola del DNA.

Limiti evidenti nel recente caso della soia Roundup Ready, prodotta dalla Monsanto e autorizzata ad essere commercializzata in Europa, che presenta già due nuove sequenze geniche (In Italia si importa la maggior parte della soia che consumiamo, il 40% della quale è transgenica. Tale prodotto, a volte mascherato sotto altri nomi, lo ritroviamo in decine e decine di prodotti industriali, nei biscotti, nell’olio, miscelato in quello di semi vari, come lecitine nei gelati, negli snack e in moltissimi altri alimenti, nella cioccolata, ecc.).

Rispetto a questi semplicissimi fatti, va dunque deprecato l’atteggiamento di coloro i quali, a nome della scienza, intendono affermare la loro libertà di ricerca senza minimamente considerare il più elementare dei principi, quello di precauzione; il riduzionismo scientifico, in questo caso applicato alla genetica, può produrre soltanto esiti disastrosi.

E non si tratta naturalmente di bloccare la ricerca scientifica come qualcuno preferisce far credere, ma di condurla in maniera ragionevole, in ambiente controllabile, non in pieno campo, escludendo le applicazioni in agricoltura, senza la fretta dovuta alla pressione commerciale che può derivarsi dalla brevettabilità delle scoperte.

Il rischio delle nuove biotecnologie è tra l’altro sottolineato da numerosi scienziati e premi Nobel.

L’economista Jeremy Rifkin, di recente intervenuto a Milano, presidente della Foundation on Economics Trends a Washington, sostiene che “Ogni organismo manipolato geneticamente rappresenta una potenziale minaccia”; la scienziata indiana Vandana Shiva, direttrice della Research Foundation for Scienze Technology Resource Policy di Dedra Dun, sostiene che “Le soluzioni ingegneristiche sono cieche circa il loro stesso impatto”; il dr. Gorge Wald, Premio Nobel per la medicina e professore ad Harvard, afferma che “Andare avanti in questa direzione può non solo essere poco saggio, ma pericoloso. Potenzialmente, esso può produrre nuove malattie d’animali e di piante, nuove forme di cancro, nuove epidemie”; Richard Lacey, tra i massimi esperti mondiali di sicurezza alimentare, molto noto anche per avere previsto il fenomeno BSE circa sette anni addietro, ritiene che l’introduzione di cibi geneticamente modificati sia causa d’illimitati rischi per la salute e dichiara “Il fatto è che è in pratica impossibile anche solo concepire una procedura di testing per stimare gli effetti sulla salute dei cibi geneticamente modificati quando essi sono introdotti nella catena alimentare, né vi è una qualche valida ragione d’interesse nutrizionale o pubblico per la loro introduzione”; Erwin Chargaff, biochimico, da molti considerato il padre della biologia molecolare, ricorda che non tutte le innovazioni vogliono dire “progresso”, e scrive nella sua autobiografia “ho la sensazione che la scienza ha violato una barriera che sarebbe dovuta rimanere inviolata”.

Cito questi pochi esempi per rilevare l’inopportuna, avventata e a mio avviso strumentale posizione espressa da una parte del mondo scientifico italiano, per fortuna immediatamente smentito dalle nuove disposizioni emanate dall’UE in materia di sicurezza e tracciabilità dei prodotti OGM.

Il tutto, in ogni caso, in una situazione in cui almeno il 40% dei cibi che sono consumati si ritiene che possano contenere prodotti geneticamente modificati (derivati della soia, farine, mais, ecc.), indistinguibili da quelli naturali (oltre ai prodotti prima citati, si ricorda anche il grande utilizzo di mais per la preparazione numerosissimi alimenti, spesso sotto forma di sciroppo di glucosio, amido di mais, farina di mais, olio, maltodestrine, ecc.).

Oggi, io credo, il problema non è più quello di un ritardo della conoscenza scientifica. L’inizio di questo terzo millennio vede l’umanità in grado di supportare il suo sviluppo nel pianeta forte di tecniche e tecnologie a misura d’uomo e nel rispetto anche di una sostenibilità “forte”: le consolidate acquisizioni scientifiche sul controllo biologico dei parassiti e delle infestanti attraverso metodi naturali (antagonismi naturali, tecniche agronomiche, ecc.), la possibilità di continuare come in passato nella selezione naturale di nuove varietà e specie, l’ancor vasto potenziale varietale esistente, i progressi nel campo del risparmio delle acque da irrigazione, gli ottimi risultati produttivi e ambientali delle colture biologiche, ecc., sono un ottimo punto di partenza per ripensare strategie e interventi.

Insomma “un’altra agricoltura”, che rivalorizzi la cultura contadina alla luce delle migliori conoscenze scientifiche, per la collettività e il nostro ambiente.

 

Le risposte di produttori, commercianti e consumatori

Intorno ai problemi della sicurezza alimentare si sono consolidate nuove esperienze di lotte contadine che, in questo contesto, assumono uno straordinario interesse.

E’ recente l’interessante piattaforma di richieste lanciata dai contadini francesi, tra i principali attori delle proteste di Seattle e delle successive manifestazioni, organizzati nella “Confederation Paysanne” di Bovè e Dufour, che chiedono all’UE, per poter affermare il loro modello di “Agricoltura contadina”, la non brevettabilità degli organismi genetici e dei loro geni, alla base dell’interesse di parte della ricerca, specialmente di origine privata, per i noti motivi economici riconducibili al diritto di proprietà intellettuale; il riorientamento della ricerca pubblica e della politica comunitaria in favore dell’agricoltura tradizionale, rispettosa dell’ambiente e della qualità alimentare e capace di creare posti di lavoro; interventi per la tutela delle risorse genetiche messe ancora a rischio dalle nuove biotecnologie.

Le necessità dei contadini si fondono con le esigenze dei consumatori. Gli allarmi e le preoccupazioni hanno interessato tutto il mondo, e a proposito si ricorda: la posizione assunta dalla National Nutritional Foods Association (NNFA), Associazione americana di grossisti e produttori, che ha richiesto al governo degli Stati Uniti che, per gli alimenti contenenti prodotti transgenici, sia utilizzato un sistema di etichettatura che copra dalla fase di produzione a quella della vendita al dettaglio, rifiutando il principio di “sostanziale equivalenza” stabilito negli USA dalla FDA nel 1992, attraverso il quale si tende a legittimare l’assenza di una regolamentazione specifica e parallela per i prodotti che contengono OGM; in Giappone la Itochu Corp, per rispondere alle richieste dei consumatori, ha messo a punto procedure per garantire la provenienza non transgenica della soia che commercializza, mentre la Jusco Co LTD, che è un’importante catena di supermercati, ha dichiarato di voler etichettare tutti i prodotti transgenici presenti nei suoi punti vendita, anticipando la normativa nazionale che entra in vigore quest’anno; altre compagnie, come la Fuji Oil Co LTD, tra i più importanti produttori del Giappone di cibi alla soia, dall’aprile 2000 non usa più soia transgenica.

Sia in Nuova Zelanda sia in Australia le Associazioni dei consumatori di si sono dichiarate contrarie all’applicazione dei progetti governativi di etichettatura dei cibi OGM, poiché li ritengono carenti e insufficienti.

La Archer Daniels Midland[1], negli Stati Uniti, ha chiesto ai fornitori di grano di separare i prodotti transgenici dagli altri, mentre la Gerber, di proprietà della Novartis e maggiore ditta produttrice di alimenti per l’infanzia, come anche la H. J. Heinz, la Poway, ed altre industrie, hanno dichiarato che non utilizzeranno prodotti derivati da OGM[2];

In Europa la seconda catena di supermercati tedesca, la Rewe, ma anche la Tengelmann, e la Soest e Tegut, hanno dichiarato l’ assenza nei loro negozi di prodotti OGM, e di garantire l’etichettatura e quindi la riconoscibilità degli eventuali prodotti transgenici che da loro possono essere commercializzati.

In Italia Algida, Perugina, Cirio, Barilla, Buitoni[3], Motta, Plasmon, e nella Grande distribuzione Esselunga, Coop e Il Gigante, hanno aderito alla campagna di Legambiente per la messa al bando dei cibi transgenici dal commercio.

Come hanno evidenziato diversi sondaggi condotti sui consumatori europei, i prodotti GM non sono bene accetti, oltre che nel nostro Paese, anche in Austria, Svezia, Germania, Danimarca, Lussemburgo, e in genere in tutti gli Stati dell’Unione Europea.

 

Il ruolo dell’agricoltura in Sicilia: lo scenario attuale e le nuove opportunità del settore

Ma andiamo a vedere più da vicino qual’è la situazione in Sicilia, dove il segmento della produzione, e cioè il settore agricolo in senso ristretto, l’anello alla base del processo alimentare, come accade in altre regioni del Mezzogiorno d’Italia, continua a mantenere all’interno del “sistema agricolo” e dell’economia in generale, un ruolo centrale e strategico.

Ciò vale sia per la capacità e potenzialità produttiva, esaltata dall’alta vocazione del territorio regionale, sia per la funzione svolta rispetto all’occupazione, continuando ad assorbire un alto numero di occupati (sebbene con redditi e condizioni in gran parte ancora troppo distanti da quelli che sono conseguibili in altri settori), sia per il naturale ruolo di attività direttamente e potenzialmente mediatrice dell’impatto tra sfera economico-produttiva e gestione dell’ambiente e delle risorse naturali.

La regione, oltre ad essere un forte produttore di prodotti di base, diversificati e di alta qualità, si caratterizza per una certa debolezza dell’industria alimentare, scarsamente integrata nella filiera, e per l’obsolescenza di parte degli impianti di trasformazione.

Pochi dati sono sufficienti a dare un’idea della dimensione e dell’importanza dell’agricoltura siciliana, come tutti sanno prevalentemente basata sulle colture agrumicole, olivicole e viticole, che concorrono alla formazione di circa la metà della Plv, e da quelle cerealicole, zootecniche e orticole, che sommate alle precedenti determinano il 90% circa della Plv regionale agricola.

Complessivamente la produzione vendibile dell’agricoltura incide per circa il 6% sul Pil regionale (Italia, media 3,8), mentre la ricchezza prodotta dall’agricoltura (VA), che ammonta a poco meno di 5.200 miliardi di lire a prezzi correnti, è pari al 9,2 del VA agricolo nazionale, dato che porta la regione al primo posto in Italia[4]. A tutto ciò si aggiungono circa 2.500 miliardi di lire prodotti dall’agroindustria.

Il sistema delle imprese conta circa 332.697 aziende (Istat 1995[5]), ma nel censimento in corso assisteremo ad un ulteriore decremento, e si caratterizza per l’elevata incidenza di strutture di piccola dimensione, in gran parte al di sotto di un ettaro, per una superficie complessiva pari a 1.735.674 ettari, di cui poco più dell’90% SAU (media aziendale 4,8%), e circa il 10% boschi, che in complesso ammontano però a circa 300.000 ettari (compreso il bosco naturale, il bosco fuori azienda e le aree protette).

Le coltivazioni permanenti interessano circa il 30% della SAU, i seminativi il 50% circa, i pascoli il 19% circa.

Si tratta di un’agricoltura molto differenziata per tipologie produttive, dove la polarizzazione è rappresentata da una parte da sistemi intensivi, spesso irrigui, ad alto reddito, prevalentemente localizzati nelle aree di pianura, di bassa collina e nella fascia costiera, e da sistemi estensivi poveri e a basso reddito dall’altra, soprattutto diffusi nelle aree interne d’alta collina e montagna; in questi ultimi ambienti buona parte dell’agricoltura è ormai scomparsa o attraversa una crisi molto profonda (la mortalità negli ultimi 10 anni ha interessato circa 100.000 aziende).

L’impatto sull’ambiente è relativamente limitato, almeno se confrontato con altre regioni, ma soprattutto dalla metà degli anni ‘70 si sono andati consolidando alcuni poli produttivi a forte intensivizzazione, cui sono riconducibili problemi di inquinamento ambientale, e ai quali è collegata la realizzazione di alcuni prodotti che dal punto di vista “salutistico”, possono considerarsi altamente inquinati (in parte riconducibile alle produzioni frutticole e a quelle orticole); basti pensare al numero di trattamenti ai quali è stata sottoposta in passato, ed ancora in parte è sottoposta l’uva Italia, per citare un esempio noto.

Sostanzialmente un settore agricolo in parte “industrializzato”, e in gran parte costituito da un’agricoltura chimica in difficoltà, inquinata, inquinante, e poco competitiva.

Dai primi anni ’90, sotto la spinta degli incentivi comunitari (1994 anno d’applicazione del 2078), l’agricoltura siciliana ha avviato un processo di trasformazione radicale attualmente ancora in atto.

La principale novità che ha modificato, fortunatamente in positivo, il quadro del settore, è senza dubbio la diffusione dell’AB, che soprattutto dal 1994 ha fatto registrare un notevolissimo incremento delle superfici, pari attualmente a circa 140.000 ettari (oltre il 9% della SAU regionale), alle quali corrispondono poco meno di 10.000 aziende

Si tratta di un fenomeno trasversale, che interessa tutte le colture, tutte le province e gli ambiti territoriali, e che da quest’anno interesserà anche l’allevamento zootecnico, che recentemente disciplinato dal nuovo regolamento, da già segnali di vitalità (sono recenti le notizie di allevatori che stanno adottando il metodo biologico, e già da giugno i prodotti dovrebbero essere disponibili).

All’agricoltura biologica, che in Sicilia a mio avviso rappresenta l’alternativa naturale di gran parte dell’agricoltura, sono riconosciuti numerosissimi aspetti positivi, sia dal punto di vista ambientale, che per quanto riguarda il mantenimento della cultura e delle tradizioni contadine, ma soprattutto, per quello che più ci interessa oggi, in relazione all’alta qualità dei suoi prodotti, in cui sono assenti i residui chimici, per la garanzia data dalla loro etichettatura tracciabilità, per l’incompatibilità dei processi produttivi biologici con l’utilizzo di organismi e varietà GM, che garantisce la loro assenza (sono già state brevettate varietà GM di agrumi a fruttificazione anticipata (un anno), patate a rapida maturazione, nuove varietà di vite da vino, ecc.).

Oggi l’AB fa della Sicilia la regione più importante dell’UE, anche se a questa realtà si contrappone la quasi totale assenza di un mercato regionale al consumo, imputabile alla debolezza della rete distributiva del prodotto fresco e, finora, all’assenza di prodotti degli allevamenti; le produzioni sono rivolte in gran parte, e con successo, ai mercati esteri, anche grazie all’eccellente lavoro svolto da alcune cooperative: ne cito una su tutte, la Cooperativa Agrinova, che quest’anno fattura circa nove miliardi di lire.

Per ridare fiducia ai consumatori, e disporre di prodotti sicuri, va dunque incentivata ulteriormente l’AB, e vanno realizzate alcune azioni.

Un’interessante intervento, che sanerebbe quello che a mio avviso è un grave ritardo legislativo, può essere l’approvazione, anche in Sicilia, di una legge che incentivi la conversione della ristorazione pubblica (mense scolastiche, ospedaliere e universitarie) in biologica.

Esempi di iniziative in questo senso, per la ristorazione scolastica, sono ormai numerosi e consolidati, anche se prevalentemente nelle regioni del Nord (54 comuni in sei regioni) e del Centro (45 comuni in quattro regioni).

Nel Sud e in Sicilia i casi sono molto più sporadici, sette comuni distribuiti tra Puglia, Calabria, e Sardegna, mentre in Sicilia l’esperimento è partito da soli due anni e interessa i 23 asili comunali di Palermo per un totale di 900 pasti al giorno, ai quali si aggiungono circa 200 pasti giornalieri di una scuola privata, la Waldorf.

Importanti sollecitazioni in questo senso provengono dalle ultime due leggi finanziarie (sia la legge Finanziaria del 2000, che quella del 2001) che, per allargare le occasioni di usufruire della ristorazione biologica, prevedono che le istituzioni pubbliche che gestiscono mense scolastiche ed ospedaliere possano utilizzare prodotti biologici, tipici, e tradizionali, nonché quelli di denominazione protetta. Allo scopo sono introdotte nei capitolati d’appalto modifiche tendenti a riconoscere il valore preminente della qualità dei prodotti agricoli.

Voglio inoltre ricordare che le ultime leggi finanziarie introducono anche l’esplicito invito a garantire, attraverso la diffusione delle mense bio, la promozione dell’agricoltura biologica e di qualità, e l’istituzione di un fondo per lo sviluppo dell’agricoltura biologica e di qualità, parzialmente alimentato dal contributo annuale per la sicurezza alimentare, a carico dei titolari delle autorizzazioni d’immissione in commercio di prodotti fitosanitari e di fertilizzanti di sintesi, calcolato in percentuale sul fatturato, che oggi raggiunge il 2%, in parte attraverso un contributo dello Stato pari a 15 mila miliardi di lire per il triennio 2001-2003.

 

Conclusioni

Quanto finora detto, può fornire spunto per alcune riflessioni.

Innanzi tutto è evidente che per ripristinare la fiducia dei consumatori, e per avere la certezza di un’alimentazione sana, nutriente e sicura, va risolto con proiezione futura il nodo dell’agricoltura.

Il problema della sicurezza alimentare, direttamente dipendente dal tipo di sviluppo che è stato finora perseguito, ci pone di fronte a scelte non più procrastinabili, e ci obbliga a rispondere a una semplice quanto problematica domanda: il solo risultato economico basta a soddisfare la richiesta di qualità totale (della vita, dell’ambiente, ecc.) avanzata dalla società?

Io ritengo di no, credo necessario, nell’interesse dei consumatori e dell’ambiente, che si debbano  perseguire le nuove strade dell’agricoltura sostenibile, e che per far questo sia importante valutare attentamente considerare le nuove opportunità e situazioni che si presentano oggi in Sicilia, e le potenziali risorse di cui si dispone.

Brevemente ricordo che: a) le produzioni mediterranee, che rappresentiamo in maniera eccellente, sono ritenute le più adatte ad una dieta sana ed equilibrata (dieta mediterranea per l’appunto); b) la nostra agricoltura, che ben si adatta ad essere convertita in biologica, non teme la competizione sul piano della qualità, quando è capace di realizzarla (esempi a questo proposito se ne possono citare parecchi, ottimi risultati qualitativi si sono raggiunti nella produzione di vini e di oli, nel comparto agrumicolo, nell’orticoltura, ecc.); c) per l’emergenza carne e prodotti dell’allevamento la nostra zootecnia, in crisi strutturale, può facilmente convertirsi in biologica e di alta qualità, proprio per la sua caratteristica già prevalentemente estensiva; d) una grossa opportunità è quella che può ricondursi al potenziale agrituristico regionale, e all’articolato e robusto sistema di aree protette capillarmente diffuso nell’isola, costituito da tre parchi e circa 90 riserve naturali, elementi che possono consentire di perseguire un modello di sviluppo locale integrato particolarmente efficace, in grado di valorizzare le produzioni tipiche di cui l’isola è ricca, i paesaggi agricoli (storici, culturali), di valorizzare prodotti e patrimonio architettonico, archeologico, ecc, imprimendo nuovi impulsi ai due settori in cui la Sicilia ha maggiori potenzialità: l’agricoltura e il turismo.

In un’ottica di questo tipo, una legge per la ristorazione pubblica biologica amplierebbe ulteriormente la base produttiva, e la consoliderebbe, con benefici diretti anche sull’ambiente e sulla sua gestione, avvierebbe finalmente la costituzione di mercati locali al consumo, facilitando l’abbassamento dei prezzi e la diffusione di una migliore cultura alimentare, creerebbe nuove opportunità di lavoro sia a valle della filiera sia a monte, in relazione al maggiore contenuto di lavoro dei processi di produzione biologica, renderebbe giustizia a chi, dovendo o volendo usufruire della ristorazione pubblica, pretende certezza e sicurezza alimentare.

Un altro passaggio importante riguarda la difesa e la valorizzazione delle produzioni siciliane. Se si vuole percorrere la strada della sicurezza e della qualità, la Sicilia deve dichiararsi regione OGM Free, ed escludere tassativamente l’ingresso di VGM dal suo territorio e la loro sperimentazione in campo. Inoltre, relativamente alla tutela dei consumatori, voglio ricordare che permangono ancora gravi lacune tanto nella normativa nazionale che in quella comunitaria: la questione dell’etichettatura (diritto di scelta consapevole del consumatore), della tracciabilità dei prodotti, e della responsabilità giuridica ed economica, tutti aspetti particolarmente importanti per i potenziali e in parte sconosciuti effetti degli OGM, resta ancora un capitolo aperto.

 



[1] L’ADM è una delle più importanti catene di supermercati degli Stati Uniti.

[2] Un’altra autorevole posizione è stata espressa dalla Chiesa d’Inghilterra, che ha rifiutato al Governo Inglese la concessione delle sue notevoli proprietà agrarie per la messa in produzione di VGM.

[3] Perugina e Buitoni sono marchi del gruppo svizzero Nestlè.

[4] INEA, Annuario dell’agricoltura italiana, 1999.

[5] ISTAT, Compendio delle Statistiche Italiane, 1997