Di Giorgio Schifani
Dipartimento di Economia dei Sistemi Agro Forestali
Università degli Studi di Palermo
Il fatto che
oggi, soprattutto in Europa, dove vi è una storia e una cultura alimentare
antica e ricchissima, si sia sollevato il problema della qualità
dell’alimentazione in termini di sicurezza, ci impone di riconsiderare, come
elemento centrale, la questione agricoltura in un’ottica complessiva.
La breve analisi
che seguirà, non vuole negare gli indubbi benefici di cui il settore si è
giovato durante il corso del suo sviluppo, grazie alle conoscenze acquisite in
campo tecnologico, agli investimenti fatti in agricoltura, alla diffusione di
tecniche più razionali per esempio nel campo dell’irrigazione, della
meccanizzazione, ecc., e agli effetti che queste modifiche hanno comportato
soprattutto per quanto riguarda la maggiore disponibilità di cibo per la
popolazione del pianeta.
Le diete si sono arricchite dal punto di vista proteico e calorico, parametri usati per misurare la bontà degli interventi, la produttività è cresciuta in maniera gigantesca; oggi, nonostante il miliardo e duecentomilioni di poveri sottonutriti, nel mondo si produce tanto da potere sfamare una popolazione superiore di 400 milioni di individui a quella esistente.
Ma quale è stato
il livello qualitativo dei prodotti che sono stati realizzati in tutti questi
decenni? Di che cosa ci siamo finora nutriti e di che ci continuiamo a nutrire,
e a quale prezzo per la salute e l’ambiente? Come mai, proprio dal settore
agricolo, che dovrebbe rappresentare l’anello di congiunzione del rapporto
uomo-natura, si avvia il processo di crisi dell’alimentazione nei paesi a
economie sviluppate?
Per comprendere i
problemi, e potere dare delle risposte a queste domande, è necessario fare un
piccolo passo indietro e ricostruire brevemente lo scenario all’interno del
quale le imprese che producono operano e sono state indirizzate ad operare, e
come questo abbia influenzato la qualità e la sicurezza delle loro produzioni,
soprattutto quando si parla di prodotti per l’alimentazione.
Il problema della
sicurezza alimentare, che come vedremo è particolarmente complesso, ci porta da
una parte a riflettere sui metodi di produzione industriale che caratterizzano
buona parte dei processi agricoli, dall’altra, forse, a riconsiderare
criticamente il modello stesso che è stato perseguito nei paesi a cosiddetta
economia avanzata, come il nostro.
A questo proposito, molto schematicamente, è
possibile fare alcune relazioni:
Sicurezza
alimentare equivale a qualità degli alimenti. Questa, a sua volta, dipende
direttamente dai processi di produzione agricola che sono determinati dalle
scelte dell’imprenditore all’interno dell’azienda-impresa agricola, e che
in questi ultimi decenni sono stati fondamentalmente caratterizzati dalla
ricerca del massimo profitto, in un “ambiente macroeconomico”, rappresentato
dal modello della libera concorrenza, andato incontro ad una trasformazione che
si è spinta sempre di più verso la totale liberalizzazione degli scambi, e la
circolazione libera e globale di merci, lavoro, capitali e servizi.
Le radici del
problema vanno dunque ricercate all’interno di un “progetto” complessivo,
di un modello di sviluppo in cui si è privilegiato l’aspetto quantitativo e
del profitto, piuttosto che quello della qualità e del benessere sociale.
Dunque, i
problemi della sicurezza sanitaria e della qualità dei prodotti alimentari
esistono da alcuni decenni, prima ancora erano soprattutto di carattere
igienico, e non sono per nulla nuovi, ma riconducibili alla
“modernizzazione” del settore agricolo.
Quando si parla
di agricoltura, oggi ci si riferisce ad un complesso di interrelazioni che
comprende la produzione agricola, l’industria di trasformazione e in
particolare per la sua importanza l’industria agro-alimentare, i servizi
connessi alla filiera dei prodotti, in tutte le fasi, la gestione di importanti
risorse naturali quali terra, acqua, biodiversità, la qualità dello spazio
rurale, la sicurezza alimentare appunto.
Non si intende più,
quindi, il solo settore agricolo legato alla produzione, l’agricoltura
tradizionale di un tempo, ma un vero e proprio “sistema” misto, che entra
quotidianamente in rapporto con la popolazione rurale e con quella urbana,
attraverso il consumo degli alimenti, con problematiche che si sono allargate
alla sfera dell’industria, dei servizi, dei trasporti, dell’ambiente, della
qualità della vita, ecc.
Questo processo
di ristrutturazione, guidato dalle politiche agricole nazionali in una prima
fase e comunitarie in seguito, ha fortemente penalizzato l’agricoltura
tradizionale perché ritenuta poco produttiva, ad eccessiva intensità di
lavoro, perché soprattutto poco competitiva e non funzionale a un mercato via
via sempre più globalizzato così come si configura oggi.
A
quale agricoltura è oggi affidata la produzione di alimenti in paesi come il
nostro (problemi gravissimi, in parte diversi, affliggono tutto il pianeta)?
Agli osservatori,
l’agricoltura offre oggi uno scenario profondamente diverso dal passato: semi
distrutta l’agricoltura tradizionale, agli estremi abbiamo da una parte un
settore emarginato e marginale, all’interno del quale il tessuto e la cultura
contadina sono sopravvissuti a brandelli, e che produce prevalentemente facendo
largo ricorso agli imput chimici, mentre l’altra faccia è rappresentata da
un’agricoltura altamente integrata nella filiera industriale, organizzata
commercialmente nella GDO, ad altissima intensità di input chimici,
perfettamente funzionale alle società consumistiche, dove le aziende sono
costrette per sopravvivere a conseguire il massimo profitto, anche a discapito
della salute pubblica e dei lavoratori, del depauperamento delle risorse
naturali, dell’espulsione dei lavoratori dal settore.
Un percorso
evolutivo che ha determinato, di fatto, un abbassamento della qualità dei
prodotti, avvenuto in maniera direttamente proporzionale all’evoluzione in
senso moderno-industriale del settore.
Evidenti segnali
sulla gravità delle condizioni di sicurezza alimentare e della sicurezza dei
cibi non sono certo nuovi, e colpisce quasi più delle emergenze stesse la
preoccupazione stupita dei consumatori di fronte ai recenti e meno recenti
scandali alimentari; non bisogna dimenticare oltre alla BSE, i polli alla
diossina, il famoso “latte di Cernobyl, l’olio di colza che in Spagna provocò
42 morti, le patologie dovute all’assunzione di pesticidi, all’accumulazione
di metalli pesanti, i rischi collegati all’utilizzo delle nuove biotecnologie
dell’ingegneria genetica, le malattie degenerative legate agli alimenti, le
gravissime epidemie come quella di questi giorni dovuta all’afta epizootica,
che anche se colpisce soltanto gli animali sottolinea la vulnerabilità degli
allevamenti intensivi-industriali.
Ancora oggi, ci
fa sapere Legambiente, il 40% dei prodotti ortofrutticoli contiene residui di
pesticidi, il 30% contiene residui con più di un principio attivo, e un
campione su 50 è fuori legge.
Un’improvvisa
presa di coscienza rispetto ad un passato dove l’inquinamento chimico dei cibi
era sottovalutato, poco conosciuto e dibattuto, superficialmente considerato un
male tutto sommato accettabile, in nome di un poco chiaro concetto di sviluppo e
progresso (Un caso evidente di contraddizione interna al modello di sviluppo
neoloberista è quello dell’India, dove una considerevole parte della
popolazione, per la maggior parte contadini che producono riso, vive in povertà
e non riesce a nutrirsi sufficientemente. L’anomalia risiede nel fatto che in
India, fino a qualche tempo addietro, la produzione di riso era insufficiente a
garantire il soddisfacimento del fabbisogno interno, mentre oggi il Paese è un
forte esportatore per gli investimenti delle multinazionali e per
l’industrializzazione della filiera; il problema dei contadini è che non
guadagnano a sufficienza per acquistare il riso necessario, elemento che
evidenzia come anche in presenza di un incremento della Plv del comparto
(maggiori produzioni) e del Va (produzione di ricchezza nel comparto), ed
eventualmente anche del reddito medio procapite, considerati ancora indicatori
di sviluppo economico per eccellenza, la distribuzione della nuova ricchezza
prodotta è orientata di gran lunga verso le aziende, andando a remunerare
sostanzialmente il capitale piuttosto che il lavoro).
Di là dalle
emergenze, che creano motivato panico, crollo dei mercati e crisi nei settori,
va ricordato che gran parte delle produzioni agricole “convenzionali” sono
state e sono ancora in parte a “rischio salute”, soprattutto quelle
orientate al mercato di massa e quelle sottoposte a trasformazione industriale,
ricche di additivi, conservanti, coloranti, ecc.
Ma anche
l’”altra agricoltura”, in gran parte sopravvissuta malamente, non offre
garanzie sufficienti; in molti casi è più facile sfuggire ai controlli o fare
un uso non appropriato di prodotti a rischio per il singolo agricoltore (anche
per mancanza di sufficienti conoscenze) che per l’industria.
Entrambe, in ogni
caso hanno abbondantemente abusato nei trattamenti con pesticidi, erbicidi,
fertilizzanti, ecc., spesso con la piena legittimazione di una legislazione
carente, e nella maggior parte delle occasioni in regime di proroga rispetto
alla normativa comunitaria.
Non è un caso
che i prodotti destinati all’esportazione siano stati, e in parte lo sono
ancora, molto più sicuri di quelli autorizzati alla vendita nel mercato
italiano.
Pur di non
penalizzare la produttività delle nostre aziende, pur di non diminuire i loro
profitti e quelli dell’industria agrochimica, ci siamo nutriti anche di
prodotti che sono stati rifiutati dai nostri partner europei.
Ma la maggior
parte dei mali è comune. In Italia come all’estero è consentito ancora
l’uso di innumerevoli farmaci: nel caso dell’allevamento si ricorda il
massiccio uso di antibiotici, utilizzati non soltanto a scopo profilattico o
terapeutico, ma anche auxinico, cioè per stimolare la crescita degli animali,
il frequente uso di metabolizzanti, anche fuori legge, come ad esempio il DES (dietilstilbestrolo),
altamente cancerogeno, o il testosterone e il progesterone, solo per citare i più
noti, spesso associati a cortisonici, ma anche gli inibitori della tiroide,
utilizzati allo scopo di provocare ritenzione idrica per ottenere incrementi di
peso.
Ai suini si è
arrivati a dover somministrare massicce dosi di tranquillanti, poiché la
selezione per creare soggetti con massa muscolare particolarmente sviluppata li
rende più sensibili allo stress.
Questo per
rimanere ad alcune “tecniche” utilizzate negli allevamenti industriali, dove
si tende a ridurre la vita degli animali circoscrivendola ad un ciclo produttivo
sempre più intenso esaltando, oltre natura, le loro capacità biologiche
produttive.
Per quanto
riguarda l’alimentazione a base di farine animali, il solo fatto di aver reso
carnivori degli erbivori, non necessita di ulteriori commenti.
Un’altra
categoria di rischi deriva dall’utilizzazione, anche in agricoltura, di
organismi geneticamente modificati, le nuove varietà OGM nate per continuare la
discutibile esperienza delle varietà ad alta resa produttiva diffuse nel
periodo della cosiddetta “Rivoluzione Verde”.
Senza dilungarmi
sui vari argomenti in cui può essere scomposta la questione OGM (rischi
biodiversità, inquinamento genetico, proprietà intellettuale del vivente,
aspetti bioetici, concentrazione del grande capitale trasnazionali,
riconversione dell’industria chimica, farmaceutica, e sementiera, interessi
corporativi legati alla ricerca, ecc.), e mantenendomi all’interno dei confini
“agricoli” della questione, ricordo semplicemente il livello di incertezza
scientifica che contraddistingue l’attuale fase della ricerca (prevalentemente
svolta dai privati), che non consente di affermare con nessun margine
accettabile di certezza la sicurezza alimentare dei prodotti derivati
dall’utilizzo di VGM.
Del resto, la
recente e tanto attesa mappatura del genoma umano, anche se rappresenta
sicuramente un passaggio conoscitivo importante nel campo della genetica, ha
evidenziato soprattutto gli enormi limiti di conoscenza dei complessi meccanismi
di regolazione biologica e di funzionamento della molecola del DNA.
Limiti evidenti
nel recente caso della soia Roundup Ready, prodotta dalla Monsanto e autorizzata
ad essere commercializzata in Europa, che presenta già due nuove sequenze
geniche (In Italia si importa la maggior parte della soia che consumiamo, il 40%
della quale è transgenica. Tale prodotto, a volte mascherato sotto altri nomi,
lo ritroviamo in decine e decine di prodotti industriali, nei biscotti,
nell’olio, miscelato in quello di semi vari, come lecitine nei gelati, negli
snack e in moltissimi altri alimenti, nella cioccolata, ecc.).
Rispetto a questi
semplicissimi fatti, va dunque deprecato l’atteggiamento di coloro i quali, a
nome della scienza, intendono affermare la loro libertà di ricerca senza
minimamente considerare il più elementare dei principi, quello di precauzione;
il riduzionismo scientifico, in questo caso applicato alla genetica, può
produrre soltanto esiti disastrosi.
E non si tratta
naturalmente di bloccare la ricerca scientifica come qualcuno preferisce far
credere, ma di condurla in maniera ragionevole, in ambiente controllabile, non
in pieno campo, escludendo le applicazioni in agricoltura, senza la fretta
dovuta alla pressione commerciale che può derivarsi dalla brevettabilità delle
scoperte.
Il rischio delle
nuove biotecnologie è tra l’altro sottolineato da numerosi scienziati e premi
Nobel.
L’economista
Jeremy Rifkin, di recente intervenuto a Milano, presidente della Foundation on
Economics Trends a Washington, sostiene che “Ogni organismo manipolato
geneticamente rappresenta una potenziale minaccia”; la scienziata indiana
Vandana Shiva, direttrice della Research Foundation for Scienze Technology
Resource Policy di Dedra Dun, sostiene che “Le soluzioni ingegneristiche sono
cieche circa il loro stesso impatto”; il dr. Gorge Wald, Premio Nobel per la
medicina e professore ad Harvard, afferma che “Andare avanti in questa
direzione può non solo essere poco saggio, ma pericoloso. Potenzialmente, esso
può produrre nuove malattie d’animali e di piante, nuove forme di cancro,
nuove epidemie”; Richard Lacey, tra i massimi esperti mondiali di sicurezza
alimentare, molto noto anche per avere previsto il fenomeno BSE circa sette anni
addietro, ritiene che l’introduzione di cibi geneticamente modificati sia
causa d’illimitati rischi per la salute e dichiara “Il fatto è che è in
pratica impossibile anche solo concepire una procedura di testing per stimare
gli effetti sulla salute dei cibi geneticamente modificati quando essi sono
introdotti nella catena alimentare, né vi è una qualche valida ragione
d’interesse nutrizionale o pubblico per la loro introduzione”; Erwin
Chargaff, biochimico, da molti considerato il padre della biologia molecolare,
ricorda che non tutte le innovazioni vogliono dire “progresso”, e scrive
nella sua autobiografia “ho la sensazione che la scienza ha violato una
barriera che sarebbe dovuta rimanere inviolata”.
Cito questi pochi
esempi per rilevare l’inopportuna, avventata e a mio avviso strumentale
posizione espressa da una parte del mondo scientifico italiano, per fortuna
immediatamente smentito dalle nuove disposizioni emanate dall’UE in materia di
sicurezza e tracciabilità dei prodotti OGM.
Il tutto, in ogni
caso, in una situazione in cui almeno il 40% dei cibi che sono consumati si
ritiene che possano contenere prodotti geneticamente modificati (derivati della
soia, farine, mais, ecc.), indistinguibili da quelli naturali (oltre ai prodotti
prima citati, si ricorda anche il grande utilizzo di mais per la preparazione
numerosissimi alimenti, spesso sotto forma di sciroppo di glucosio, amido di
mais, farina di mais, olio, maltodestrine, ecc.).
Oggi, io credo,
il problema non è più quello di un ritardo della conoscenza scientifica.
L’inizio di questo terzo millennio vede l’umanità in grado di supportare il
suo sviluppo nel pianeta forte di tecniche e tecnologie a misura d’uomo e nel
rispetto anche di una sostenibilità “forte”: le consolidate acquisizioni
scientifiche sul controllo biologico dei parassiti e delle infestanti attraverso
metodi naturali (antagonismi naturali, tecniche agronomiche, ecc.), la
possibilità di continuare come in passato nella selezione naturale di nuove
varietà e specie, l’ancor vasto potenziale varietale esistente, i progressi
nel campo del risparmio delle acque da irrigazione, gli ottimi risultati
produttivi e ambientali delle colture biologiche, ecc., sono un ottimo punto di
partenza per ripensare strategie e interventi.
Insomma
“un’altra agricoltura”, che rivalorizzi la cultura contadina alla luce
delle migliori conoscenze scientifiche, per la collettività e il nostro
ambiente.
Intorno ai
problemi della sicurezza alimentare si sono consolidate nuove esperienze di
lotte contadine che, in questo contesto, assumono uno straordinario interesse.
E’ recente
l’interessante piattaforma di richieste lanciata dai contadini francesi, tra i
principali attori delle proteste di Seattle e delle successive manifestazioni,
organizzati nella “Confederation Paysanne” di Bovè e Dufour, che chiedono
all’UE, per poter affermare il loro modello di “Agricoltura contadina”, la
non brevettabilità degli organismi genetici e dei loro geni, alla base
dell’interesse di parte della ricerca, specialmente di origine privata, per i
noti motivi economici riconducibili al diritto di proprietà intellettuale; il
riorientamento della ricerca pubblica e della politica comunitaria in favore
dell’agricoltura tradizionale, rispettosa dell’ambiente e della qualità
alimentare e capace di creare posti di lavoro; interventi per la tutela delle
risorse genetiche messe ancora a rischio dalle nuove biotecnologie.
Le necessità dei contadini si fondono con le
esigenze dei consumatori. Gli allarmi e le preoccupazioni hanno interessato
tutto il mondo, e a proposito si ricorda: la posizione assunta dalla National
Nutritional Foods Association (NNFA), Associazione americana di grossisti e
produttori, che ha richiesto al governo degli Stati Uniti che, per gli alimenti
contenenti prodotti transgenici, sia utilizzato un sistema di etichettatura che
copra dalla fase di produzione a quella della vendita al dettaglio, rifiutando
il principio di “sostanziale equivalenza” stabilito negli USA dalla FDA nel
1992, attraverso il quale si tende a legittimare l’assenza di una
regolamentazione specifica e parallela per i prodotti che contengono OGM; in
Giappone la Itochu Corp, per rispondere alle richieste dei consumatori, ha messo
a punto procedure per garantire la provenienza non transgenica della soia che
commercializza, mentre la Jusco Co LTD, che è un’importante catena di
supermercati, ha dichiarato di voler etichettare tutti i prodotti transgenici
presenti nei suoi punti vendita, anticipando la normativa nazionale che entra in
vigore quest’anno; altre compagnie, come la Fuji Oil Co LTD, tra i più
importanti produttori del Giappone di cibi alla soia, dall’aprile 2000 non usa
più soia transgenica.
Sia in Nuova
Zelanda sia in Australia le Associazioni dei consumatori di si sono dichiarate
contrarie all’applicazione dei progetti governativi di etichettatura dei cibi
OGM, poiché li ritengono carenti e insufficienti.
La Archer Daniels
Midland[1], negli Stati Uniti, ha
chiesto ai fornitori di grano di separare i prodotti transgenici dagli altri,
mentre la Gerber, di proprietà della Novartis e maggiore ditta produttrice
di alimenti per
l’infanzia, come anche la H. J. Heinz, la Poway, ed altre industrie, hanno
dichiarato che non utilizzeranno prodotti derivati da OGM[2];
In Europa la
seconda catena di supermercati tedesca, la Rewe, ma anche la Tengelmann, e la
Soest e Tegut, hanno dichiarato l’ assenza nei loro negozi di prodotti OGM, e
di garantire l’etichettatura e quindi la riconoscibilità degli eventuali
prodotti transgenici che da loro possono essere commercializzati.
In Italia Algida,
Perugina, Cirio, Barilla, Buitoni[3],
Motta, Plasmon, e nella Grande distribuzione Esselunga, Coop e Il Gigante, hanno
aderito alla campagna di Legambiente per la messa al bando dei cibi transgenici
dal commercio.
Come hanno evidenziato diversi sondaggi condotti sui consumatori europei, i prodotti GM non sono bene accetti, oltre che nel nostro Paese, anche in Austria, Svezia, Germania, Danimarca, Lussemburgo, e in genere in tutti gli Stati dell’Unione Europea.
Ma andiamo a
vedere più da vicino qual’è la situazione in Sicilia, dove il segmento della
produzione, e cioè il settore agricolo in senso ristretto, l’anello alla base
del processo alimentare, come accade in altre regioni del Mezzogiorno
d’Italia, continua a mantenere all’interno del “sistema agricolo” e
dell’economia in generale, un ruolo centrale e strategico.
Ciò vale sia per
la capacità e potenzialità produttiva, esaltata dall’alta vocazione del
territorio regionale, sia per la funzione svolta rispetto all’occupazione,
continuando ad assorbire un alto numero di occupati (sebbene con redditi e
condizioni in gran parte ancora troppo distanti da quelli che sono conseguibili
in altri settori), sia per il naturale ruolo di attività direttamente e
potenzialmente mediatrice dell’impatto tra sfera economico-produttiva e
gestione dell’ambiente e delle risorse naturali.
La regione, oltre
ad essere un forte produttore di prodotti di base, diversificati e di alta
qualità, si caratterizza per una certa debolezza dell’industria alimentare,
scarsamente integrata nella filiera, e per l’obsolescenza di parte degli
impianti di trasformazione.
Pochi dati sono
sufficienti a dare un’idea della dimensione e dell’importanza
dell’agricoltura siciliana, come tutti sanno prevalentemente basata sulle
colture agrumicole, olivicole e viticole, che concorrono alla formazione di
circa la metà della Plv, e da quelle cerealicole, zootecniche e orticole, che
sommate alle precedenti determinano il 90% circa della Plv regionale agricola.
Complessivamente
la produzione vendibile dell’agricoltura incide per circa il 6% sul Pil
regionale (Italia, media 3,8), mentre la ricchezza prodotta dall’agricoltura
(VA), che ammonta a poco meno di 5.200 miliardi di lire a prezzi correnti, è
pari al 9,2 del VA agricolo nazionale, dato che porta la regione al primo posto
in Italia[4].
A tutto ciò si aggiungono circa 2.500 miliardi di lire prodotti dall’agroindustria.
Il sistema delle
imprese conta circa 332.697 aziende (Istat 1995[5]),
ma nel censimento in corso assisteremo ad un ulteriore decremento, e si
caratterizza per l’elevata incidenza di strutture di piccola dimensione, in
gran parte al di sotto di un ettaro, per una superficie complessiva pari a
1.735.674 ettari, di cui poco più dell’90% SAU (media aziendale 4,8%), e
circa il 10% boschi, che in complesso ammontano però a circa 300.000 ettari
(compreso il bosco naturale, il bosco fuori azienda e le aree protette).
Le coltivazioni
permanenti interessano circa il 30% della SAU, i seminativi il 50% circa, i
pascoli il 19% circa.
Si tratta di
un’agricoltura molto differenziata per tipologie produttive, dove la
polarizzazione è rappresentata da una parte da sistemi intensivi, spesso
irrigui, ad alto reddito, prevalentemente localizzati nelle aree di pianura, di
bassa collina e nella fascia costiera, e da sistemi estensivi poveri e a basso
reddito dall’altra, soprattutto diffusi nelle aree interne d’alta collina e
montagna; in questi ultimi ambienti buona parte dell’agricoltura è ormai
scomparsa o attraversa una crisi molto profonda (la mortalità negli ultimi 10
anni ha interessato circa 100.000 aziende).
L’impatto
sull’ambiente è relativamente limitato, almeno se confrontato con altre
regioni, ma soprattutto dalla metà degli anni ‘70 si sono andati consolidando
alcuni poli produttivi a forte intensivizzazione, cui sono riconducibili
problemi di inquinamento ambientale, e ai quali è collegata la realizzazione di
alcuni prodotti che dal punto di vista “salutistico”, possono considerarsi
altamente inquinati (in parte riconducibile alle produzioni frutticole e a
quelle orticole); basti pensare al numero di trattamenti ai quali è stata
sottoposta in passato, ed ancora in parte è sottoposta l’uva Italia, per
citare un esempio noto.
Sostanzialmente un settore agricolo in parte “industrializzato”, e in gran parte costituito da un’agricoltura chimica in difficoltà, inquinata, inquinante, e poco competitiva.
Dai primi anni ’90, sotto la spinta degli incentivi comunitari (1994 anno d’applicazione del 2078), l’agricoltura siciliana ha avviato un processo di trasformazione radicale attualmente ancora in atto.
La principale
novità che ha modificato, fortunatamente in positivo, il quadro del settore, è
senza dubbio la diffusione dell’AB, che soprattutto dal 1994 ha fatto
registrare un notevolissimo incremento delle superfici, pari attualmente a circa
140.000 ettari (oltre il 9% della SAU regionale), alle quali corrispondono poco
meno di 10.000 aziende
Si tratta di un
fenomeno trasversale, che interessa tutte le colture, tutte le province e gli
ambiti territoriali, e che da quest’anno interesserà anche l’allevamento
zootecnico, che recentemente disciplinato dal nuovo regolamento, da già segnali
di vitalità (sono recenti le notizie di allevatori che stanno adottando il
metodo biologico, e già da giugno i prodotti dovrebbero essere disponibili).
All’agricoltura
biologica, che in Sicilia a mio avviso rappresenta l’alternativa naturale di
gran parte dell’agricoltura, sono riconosciuti numerosissimi aspetti positivi,
sia dal punto di vista ambientale, che per quanto riguarda il mantenimento della
cultura e delle tradizioni contadine, ma soprattutto, per quello che più ci
interessa oggi, in relazione all’alta qualità dei suoi prodotti, in cui sono
assenti i residui chimici, per la garanzia data dalla loro etichettatura
tracciabilità, per l’incompatibilità dei processi produttivi biologici con
l’utilizzo di organismi e varietà GM, che garantisce la loro assenza (sono già
state brevettate varietà GM di agrumi a fruttificazione anticipata (un anno),
patate a rapida maturazione, nuove varietà di vite da vino, ecc.).
Oggi l’AB fa
della Sicilia la regione più importante dell’UE, anche se a questa realtà si
contrappone la quasi totale assenza di un mercato regionale al consumo,
imputabile alla debolezza della rete distributiva del prodotto fresco e, finora,
all’assenza di prodotti degli allevamenti; le produzioni sono rivolte in gran
parte, e con successo, ai mercati esteri, anche grazie all’eccellente lavoro
svolto da alcune cooperative: ne cito una su tutte, la Cooperativa Agrinova, che
quest’anno fattura circa nove miliardi di lire.
Per ridare
fiducia ai consumatori, e disporre di prodotti sicuri, va dunque incentivata
ulteriormente l’AB, e vanno realizzate alcune azioni.
Un’interessante intervento, che sanerebbe quello che a mio avviso è un grave ritardo legislativo, può essere l’approvazione, anche in Sicilia, di una legge che incentivi la conversione della ristorazione pubblica (mense scolastiche, ospedaliere e universitarie) in biologica.
Esempi di
iniziative in questo senso, per la ristorazione scolastica, sono ormai numerosi
e consolidati, anche se prevalentemente nelle regioni del Nord (54 comuni in sei
regioni) e del Centro (45 comuni in quattro regioni).
Nel Sud e in
Sicilia i casi sono molto più sporadici, sette comuni distribuiti tra Puglia,
Calabria, e Sardegna, mentre in Sicilia l’esperimento è partito da soli due
anni e interessa i 23 asili comunali di Palermo per un totale di 900 pasti al
giorno, ai quali si aggiungono circa 200 pasti giornalieri di una scuola
privata, la Waldorf.
Quanto finora
detto, può fornire spunto per alcune riflessioni.
Innanzi tutto è
evidente che per ripristinare la fiducia dei consumatori, e per avere la
certezza di un’alimentazione sana, nutriente e sicura, va risolto con
proiezione futura il nodo dell’agricoltura.
Il problema della
sicurezza alimentare, direttamente dipendente dal tipo di sviluppo che è stato
finora perseguito, ci pone di fronte a scelte non più procrastinabili, e ci
obbliga a rispondere a una semplice quanto problematica domanda: il solo
risultato economico basta a soddisfare la richiesta di qualità totale (della
vita, dell’ambiente, ecc.) avanzata dalla società?
Io ritengo di no,
credo necessario, nell’interesse dei consumatori e dell’ambiente, che si
debbano perseguire le nuove strade
dell’agricoltura sostenibile, e che per far questo sia importante valutare
attentamente considerare le nuove opportunità e situazioni che si presentano
oggi in Sicilia, e le potenziali risorse di cui si dispone.
Brevemente
ricordo che: a) le produzioni mediterranee, che rappresentiamo in maniera
eccellente, sono ritenute le più adatte ad una dieta sana ed equilibrata (dieta
mediterranea per l’appunto); b) la nostra agricoltura, che ben si adatta ad
essere convertita in biologica, non teme la competizione sul piano della qualità,
quando è capace di realizzarla (esempi a questo proposito se ne possono citare
parecchi, ottimi risultati qualitativi si sono raggiunti nella produzione di
vini e di oli, nel comparto agrumicolo, nell’orticoltura, ecc.); c) per
l’emergenza carne e prodotti dell’allevamento la nostra zootecnia, in crisi
strutturale, può facilmente convertirsi in biologica e di alta qualità,
proprio per la sua caratteristica già prevalentemente estensiva; d) una grossa
opportunità è quella che può ricondursi al potenziale agrituristico
regionale, e all’articolato e robusto sistema di aree protette capillarmente
diffuso nell’isola, costituito da tre parchi e circa 90 riserve naturali,
elementi che possono consentire di perseguire un modello di sviluppo locale
integrato particolarmente efficace, in grado di valorizzare le produzioni
tipiche di cui l’isola è ricca, i paesaggi agricoli (storici, culturali), di
valorizzare prodotti e patrimonio architettonico, archeologico, ecc, imprimendo
nuovi impulsi ai due settori in cui la Sicilia ha maggiori potenzialità:
l’agricoltura e il turismo.
In un’ottica di
questo tipo, una legge per la ristorazione pubblica biologica amplierebbe
ulteriormente la base produttiva, e la consoliderebbe, con benefici diretti
anche sull’ambiente e sulla sua gestione, avvierebbe finalmente la
costituzione di mercati locali al consumo, facilitando l’abbassamento dei
prezzi e la diffusione di una migliore cultura alimentare, creerebbe nuove
opportunità di lavoro sia a valle della filiera sia a monte, in relazione al
maggiore contenuto di lavoro dei processi di produzione biologica, renderebbe
giustizia a chi, dovendo o volendo usufruire della ristorazione pubblica,
pretende certezza e sicurezza alimentare.
Un altro
passaggio importante riguarda la difesa e la valorizzazione delle produzioni
siciliane. Se si vuole percorrere la strada della sicurezza e della qualità, la
Sicilia deve dichiararsi regione OGM Free, ed escludere tassativamente
l’ingresso di VGM dal suo territorio e la loro sperimentazione in campo.
Inoltre, relativamente alla tutela dei consumatori, voglio ricordare che
permangono ancora gravi lacune tanto nella normativa nazionale che in quella
comunitaria: la questione dell’etichettatura (diritto di scelta consapevole
del consumatore), della tracciabilità dei prodotti, e della responsabilità
giuridica ed economica, tutti aspetti particolarmente importanti per i
potenziali e in parte sconosciuti effetti degli OGM, resta ancora un capitolo
aperto.
[1] L’ADM è una delle più importanti catene di supermercati degli Stati Uniti.
[2] Un’altra autorevole posizione è stata espressa dalla Chiesa d’Inghilterra, che ha rifiutato al Governo Inglese la concessione delle sue notevoli proprietà agrarie per la messa in produzione di VGM.
[3] Perugina e Buitoni sono marchi del gruppo svizzero Nestlè.
[4] INEA, Annuario dell’agricoltura italiana, 1999.
[5] ISTAT, Compendio delle Statistiche Italiane, 1997