FLAI-CGIL NAZIONALE |
FLAI CGIL SICILIA |
ORIZZONTI MERIDIONALI:
LAVORO,
Palermo, 21 gennaio 2003
I lavoratori della FIAT, ai quali va, assieme ai
lavoratori della Cirio, la solidarietà della FLAI, hanno dato vita ad un forte,
articolato e intelligente, movimento di lotta che ha raccolto il consenso e il
sostegno dell’opinione pubblica italiana.
Una lotta che si è inserita in quel solco che la CGIL ha
tracciato nel momento in cui ha deciso che bisognava opporsi a quel patto
perverso tra governo e Confindustria per fare, a spese dei più deboli, più
forti i forti.
Un movimento di lotta, quello della CGIL, che ha
caratterizzato tutto il 2002, ed ha messo le premesse per una stagione di lotta
che proseguirà sicuramente anche nel 2003 e che ha come obbiettivo unificante
quello di tutelare i diritti dei lavoratori, difendere le libertà sindacali,
porre le basi per uno sviluppo che recuperi lo svantaggio Nord - Sud e renda il
Paese competitivo dentro scenari internazionali che sono in movimento.
L’iniziativa della CGIL vuole
arrestare il declino del Paese del quale il caso FIAT è una spia
abbastanza allarmante.
I lavoratori della FIAT e dell’indotto di Termini
Imerese sono stati e sono protagonisti di questa battaglia.
Nel Mezzogiorno chi perde il lavoro non ha prospettive
occupazionali, ha di fronte solo la disperazione; chi va in cassa integrazione
non ha possibilità, così come suggerisce con dubbio gusto il Presidente del
Consiglio, di fare un secondo lavoro in nero, perché qui il lavoro nero non è
una seconda attività ma spesso è l’unica occupazione possibile.
Di fronte al dramma, i lavoratori della FIAT di Termini
Imerese hanno dato una lezione di grande dignità, ponendo con forza una
questione nazionale di fondo: un paese industriale come l’Italia non può
disfarsi dell’industria automobilistica nazionale, per questo rivendicano non
assistenza ma un piano che partendo dalla innovazione rilanci il settore in
Europa e nel mondo.
Dunque, gli operai della FIAT di Termini Imerese hanno
riproposto un volto produttivo del Mezzogiorno, hanno rivendicato una inversione
di tendenza, si battono contro la deindustrializzazione del Sud e chiedono di
arrestare il declino del Paese.
Dall’altro lato la Legge Finanziaria per il 2003, una
legge sbagliata, iniqua e pericolosa, che è stata annunciata, con sfavillii di
luci, come un evento storico.
Ma aldilà degli effetti mediatici si è scontrata con una
realtà diversa: ad esempio il capitolo che riguarda il Mezzogiorno rivela in
modo evidente la vera opinione del governo: quella di considerare questa parte
del Paese la palla al piede di qualsiasi ipotesi di sviluppo.
Tutti hanno protestato, era uno spettacolo vedere le grida
di Confindustria e dei sottoscrittori del patto per l’Italia, unirsi alle
critiche della CGIL, dei Comuni, delle Regioni, dei Rettori delle Università.
Il cosiddetto maxi emendamento sul Mezzogiorno ha
introdotto correttivi più di facciata che di sostanza.
Mentre c’è la necessità di rigore, di selezione della
spesa, di investimenti al Sud si è preferito nei fatti costruire una
finanziaria fondata su entrate sovrastimate basate sui condoni, su tagli che
spostano verso i comuni e le regioni il peso della imposizione fiscale.
Una finanziaria che alla fine anche settori della
maggioranza hanno votato “turandosi il naso”.
Una finanziaria quindi che dà molto meno di quello che
serve, e lo dà anche in modo sbagliato.
Infatti la modulazione delle risorse prevede un incremento
di queste nel tempo, poche risorse nel 2003 e aumento delle risorse (forse)
negli anni successivi.
Il governo non ha compreso o non vuole comprendere che il
Mezzogiorno d’Italia deve fare i conti con due scadenze a tempi brevi:
l’allargamento ad Est dell’Unione Europea con l’ingresso di Paesi che
competeranno seriamente con le attività produttive del Mezzogiorno e che
saranno sostenuti da quelle risorse dell’obbiettivo uno che fino ad oggi sono
andate alle regioni delle aree svantaggiate; dall’altro lato la scadenza del
2010 quando si creerà una zona di libero scambio che comprenderà una
quarantina di Paesi e un mercato di oltre seicento (600) milioni di abitanti che
coinvolgerà e ridarà centralità al Mediterraneo.
Il fattore tempo è quindi decisivo per il Mezzogiorno
d’Italia. Ma il Governo non ha tenuto conto di ciò.
Anzi, se mettiamo in fila gli orientamenti che si vogliono
affermare con la cosiddetta devolution e il modo in cui si stanno spendendo le
risorse finanziarie previste da Agenda 2000 (senza una selezione degli
obiettivi) si ha la forte sensazione che il
Sud sia condannato,ancora una volta, a una
“crescita senza sviluppo”.
Non si coglie la complessità: nel Mezzogiorno convivono
innovazione e arretratezza, produttività e assistenzialismo, lavoro tutelato e
lavoro sommerso, punti di eccellenza e precariato, futuro e passato, tradizione
e modernità.
La quantità dell’intervento deve essere, quindi,
accompagnata necessariamente dalla qualità.
In un interessante convegno del CERDFOS-CGIL Sicilia sulla
“globalizazzione” il prof. Purpura si poneva la domanda su come si modifica
il divario Nord-Sud all’interno dei nuovi sistemi.
Se è vero che è centrale la conoscenza, quest’ultima ha due
dimensioni fondamentali: una codificata, l’altra tacita. La conoscenza
tecnologica è una pre-condizione, purché gestita da competenze adeguate in
grado di andare oltre l’imitazione. La dimensione strategica della
competizione è però sulla competenza tacita, cioè, quella che si crea nei
centri di ricerca, nel rapporto tra università ed imprese. Su questo punto
rischia di accentuarsi il divario Nord-Sud. Le nuove tecnologie tendono a
ricreare, su basi diverse e in misura forse ancora più approfondita, i divari
di conoscenza e sviluppo che erano preesistenti sulle vecchie tecnologie,
rispetto alle quali la logica dell’inseguimento era in qualche modo fattibile.
Negli anni Cinquanta si disse ai Meridionali: Prendetevi la chimica, la
siderurgia, la meccanica e inseguiteci. Ci raggiungerete. In quegli anni il gap
tra Nord e Sud era di tipo quantitativo mentre il modello di sviluppo proposto
era lo stesso. Oggi le nuove tecnologie e la gemmazione di nuovi grappoli di
innovazione, tendono a modificare i
modelli di sviluppo.
La politica Regionale così come la si sostanzia nei Pit e negli altri
strumenti di accesso al lavoro, sembra di pura continuità rispetto al passato,
di puro sviluppo sul profilo più basso. Se guardiamo i dati, le industrie
meridionali sono tutte addensate su miglioramenti di processo, cioè, su
percorsi innovativi di bassissimo profilo, con i quali ci si difende alla meno
peggio. Sono processi aziendali che tendono a difendere posizioni già
acquisite, ed è una difesa talvolta disperata. L’integrazione dei mercati
mondiali avviene a due lati: si può portare la cassata in Svezia, ma è anche
vero che gli svedesi possono arrivare anche a Canicattì, ciò vuol dire che
siamo aperti in un mercato in cui gli scambi sono liberi e le barriere alla
conoscenza, all’accesso ai mercati si rompono sia in un senso che
nell’altro. O noi riusciamo a difenderci, costruendo vantaggi competitivi
solidi, oppure siamo destinati a perdere.(A.Purpura)
Questo
è il cuore del problema economico meridionale, dunque, qualità per essere
competitivi.
Confindustria,
invece, ritiene che la competitività si determini liquidando i diritti dei
lavoratori (che sono considerati lacci e laccioli) e precarizzando il mercato
del lavoro.
Il
Governo ha scelto come propria politica industriale il programma di
Confindustria.
La
Cgil contrasta le scelte di Confindustria che coincidono con la politica
industriale ed economica del Governo.
E’
per questo che dicono che facciamo politica!
In questo quadro l’obiettivo che la FLAI-CGIL si pone con l’iniziativa
odierna è ambizioso, infatti vogliamo fare un salto di qualità nell’azione
del nostro sindacato puntando decisamente a fare divenire la risorsa dell’Agroalimentare
di qualità una leva per un nuovo sviluppo eco-compatibile del Mezzogiorno.
Si
tratta di cogliere tutte le potenzialità esistenti in questo importante
segmento produttivo mettendo a punto una strategia che si ponga l’obiettivo di
creare occupazione, tutelare l’ambiente, difendere gli interessi dei
consumatori, innovare e modernizzare le imprese del settore.
Obiettivo
ambizioso ma non impossibile, infatti non esiste Paese al mondo che possa
vantare, come l’Italia, una tale varietà di gamma e di calendari nelle
produzioni agricole e una tale ricchezza di produzioni tipiche e di alta qualità.
Esistono
altri sistemi agricoli che possono vantare condizioni climatiche forse anche più
favorevoli, ma sono privi della ricchezza della tipicità.
Il
sistema agroalimentare italiano è potenzialmente il più importante sistema
agroalimentare di qualità nel mondo.
Esistono
tutte le condizioni di base quindi per impostare una strategia che veda in
questo obiettivo un traguardo raggiungibile.
Non
si tratta di inventare un modello di sviluppo, di scrivere l’ennesimo libro
dei sogni, ma semplicemente di guardarsi attorno, analizzare le numerose
iniziative che nascono e crescono.
Nel
Mezzogiorno, per il nostro Sindacato, si tratta di capire che è necessario
uscire dalle piccole certezze quotidiane riprendere il gusto di fare sindacato,
di sapere leggere le ansie, le aspettative, le aspirazioni che stanno dietro
quelle migliaia di domande di disoccupazione agricola che le nostre strutture
compilano ogni anno con pazienza certosina.
Dietro
quelle pratiche ci sono uomini e donne che chiedono al nostro Sindacato qualche
cosa in più dell’assistenza e proprio loro sono il filo rosso che ci
consente, ripercorrendo all’indietro la loro strada di trovare le aziende, le
fabbriche e gli stimoli per mettere in piedi una politica di sviluppo.
Siamo
il Sindacato dell’occupazione delle terre e della riforma agraria, siamo il
Sindacato che intreccia la tutela degli interessi dei lavoratori con gli
interessi più generali del Paese, siamo uno dei più grandi sindacati di
categoria del mezzogiorno.
Consumatori
e forze dell’ambientalismo devono essere i naturali interlocutori dei
lavoratori del settore agroalimentare.
Bene
ha fatto Franco Chiriaco al momento del suo insediamento a presentare alla
segreteria confederale il progetto che fa della FLAI il sindacato del
territorio, che vuole essere attore dello sviluppo sostenibile, che fa della
sicurezza alimentare, della difesa del suolo, dello sviluppo rurale punti
strategici della propria iniziativa, che individua nell’uso delle acque, nei
rifiuti, nelle fonti energetiche, nella certificazione di qualità ambiti nei
quali misurare le proprie proposte con quelle di altri soggetti a partire dagli
stessi sindacati di categoria che si occupano della stessa materia.
Vogliamo
essere nei fatti il sindacato del territorio. Attorno a quale tema fondare la
nostra strategia nel Mezzogiorno?
La
qualità come strumento dello sviluppo civile e moderno e come presidio
dell’ambiente e del territorio.
Nel
nostro settore qualità vuol dire in primo luogo sicurezza alimentare. I
consumatori sono sensibilissimi a questo tema.
Il
tema della sicurezza alimentare è all’ordine del giorno e non può più
essere eluso.
Mucca
pazza e lo scandalo dei mangimi alla diossina hanno turbato profondamente
l’opinione pubblica europea, hanno prodotto reazioni e paure alle quali i
governi non hanno saputo dare risposte rassicuranti non per cattiva volontà
politica ma sopratutto perché non sono in grado di contrastare in modo adeguato
simili emergenze. Ciò è drammatico e angosciante!
Salutiamo
positivamente la decisione assunta dalla commissione europea di andare alla
istituzione di una Autorità alimentare europea indipendente. Ma quando sarà
istituita?
A
questa autorità saranno affidati compiti fondamentali che vanno dal parere
scientifico su tutti gli aspetti relativi alla sicurezza alimentare, alla
gestione di sistemi di allarme rapido, alla comunicazione ed al dialogo con i
consumatori in materia di sicurezza alimentare e di questioni sanitarie, e alla
realizzazione di reti con le agenzie nazionali e agli organismi scientifici.
La
Commissione ha già identificato numerose misure necessarie per migliorare gli
standard di sicurezza alimentare.
Il
libro bianco sulla sicurezza alimentare delinea più di ottanta diverse azioni
contemplate per i prossimi anni.
I consumatori hanno il diritto di attendersi informazioni sulla qualità
degli alimenti e suoi loro ingredienti e tale informazione deve essere utile e
presentata in modo chiaro ed in modo da consentire scelte consapevoli.
Dare
una risposta positiva al tema della sicurezza alimentare significa introdurre
dei vincoli che avranno conseguenze sia nel modo di produrre che in quello della
trasformazione e della commercializzazione.
Non
abbiamo nulla da temere da una politica che vuole mettere sotto controllo
l’intera catena alimentare.
Ciò
comporta la rivisitazione dell’intera catena alimentare e la necessità di
introdurre innovazioni di processo e di prodotto.
Il Mezzogiorno deve usare questa novità come un’opportunità per
costruire un proprio “sistema agroalimentare” che guardi verso l’Europa da
una parte e verso il bacino del Mediterraneo dall’altra, un sistema che
realizzando filiere agroalimentare mediterranee non produca più per il mercato
sotto casa, ma si ponga invece il problema di essere un soggetto che trasforma e
commercializza i prodotti per i grandi mercati nazionali ed internazionali
producendo valore aggiunto e ricchezza in loco.
Un Mezzogiorno che porta le cassate siciliane in Europa e il know-how
agroalimentare nel Mediterraneo, anche per contrastare quanto già avviene oggi
e cioè che in alcune serre di Ragusa arrivano sementi olandesi e kow-hov
israeliano
Già
oggi il Mezzogiorno è uno dei maggiori produttori europei di agricoltura
biologica, ma ancora deve essere fatto molto in quanto in queste produzioni la
quantità la fanno produzioni come il grano.
Ciò
vuol dire, in primo luogo, che nel territorio, e non solo in quello meridionale
ma anche in quello mediterraneo, bisogna rivedere le modalità d’uso dei
fitofarmaci, degli antiparassitari e dei diserbanti arrivando alla diminuzione
della loro somministrazione ed eventualmente alla loro eliminazione.
Una
sicurezza alimentare costruita sulla tradizione e sull’innovazione
eco-compatibile, che chiami in causa la ricerca scientifica e la sua
applicazione in un’agricoltura sana e di qualità.
La
nostra, così come dice il libro bianco della UE sulla sicurezza alimentare,
deve essere la politica “dai campi e dal mare alla tavola”, una politica che
copra tutti i settori della catena alimentare, compresa la produzione di
mangimi, la produzione primaria, la lavorazione degli alimenti,
l’immagazzinamento, la logistica, il trasporto e la vendita al dettaglio in
grado di attrarre investimenti centrati sulla qualità.
L’istituzione
di un’Autorità alimentare europea indipendente sarà accompagnata da una
serie di misure e di vincoli, che sicuramente introdurranno anche dei correttivi
di qualità alla nostra agroindustria.
Non
bisogna mai dimenticare che la Comunità è il più grande
importatore/esportatore di prodotti alimentari al mondo,noi dobbiamo avere
occhio a questo mercato, offrendo tipicità e qualità.
La
qualità quindi come fattore che risponde alle aspettative dei consumatori e non
solamente dei più attenti.
Ma
al tempo stesso la qualità come mezzo di penetrazione nel mercato globale.
Negli
ultimi due decenni l’Italia ha fatto enormi progressi sull’immagine che
proietta sul resto del mondo; la favorevole immagine del “made in Italy” ha
consolidato una diffusa accettazione di modelli di consumo alimentare legati
alla “dieta mediterranea”.
Le
produzioni agroalimentare meridionali sono tipiche produzioni da dieta
mediterranea.
Anche
per questo esprimiamo riserve sul modo con cui si vogliono imporre le
biotecnologie in agricoltura.
La
bioingegneria come qualsiasi altra scienza non è né buona né cattiva, dipende
dall’uso che ne fa l’uomo.
Se
controllata e utilizzata in modo etico può anche contribuire a risolvere grandi
problemi.
Le
biotecnologie esistono da oltre un secolo, ufficialmente la loro data di nascita
può risalire al 1857 quando Louis Pasteur spiegò i meccanismi di lievitazione
e di fermentazione, ciò che maggiormente ci preoccupa è l’uso che se ne
vuole fare in agricoltura.
Come
l’impiego delle sementi transgeniche che inducono una dipendenza funzionale
verso le imprese titolari dei brevetti e tendono ad appiattire le differenze
qualitative dei prodotti agricoli verso standard predefiniti.
La
diffusione di queste tecnologie ha creato, o sta creando, nuove dipendenze e
gravi rischi di impatto ambientali sulla “biodiversità” che è una delle
ricchezze della Terra.
Si
profila la possibilità di una marcata supremazia di alcuni grandi gruppi a
scapito di un settore economico primario come l’agricoltura e il sistema
alimentare nel suo complesso, con il fine di produrre profitti senza alcuna
responsabilità in ordine agli impatti su sistemi ecologici, economici,
antropologici, sanitari, determinando inoltre un salto di qualità in negativo
per quanto attiene alla standardizzazione ed omologazione dei processi
produttivi, con ricadute deleterie sulla qualità del lavoro.
Crediamo
che in un settore come quello degli organismi geneticamente modificati
(OGM) la ricerca debba procedere secondo il “principio di
precauzione”almeno per tutta l’area del Mediterraneo, poiché attualmente è
molto difficile prevedere le innumerevoli variabili degli effetti delle
modificazioni e delle ricadute sull’ambiente e sulla salute umana.
La
sicurezza alimentare deve essere la priorità assoluta: riguarda, infatti, in
primo luogo la salute dei consumatori, ma può anche, per il nostra paese
sopratutto, rappresentare un importante elemento di convenienza economica.
Abbiamo
appreso, a spese di tutti, che l’applicazione acritica delle conoscenze
derivanti dalle ricerche scientifiche, può produrre disastri irreversibili.
Non
è quindi possibile prescindere dalla valutazione del rapporto che esiste, anche
in questo campo, tra ricerche di base ed il suo trasferimento nei processi
produttivi.
Non
si può dare spazio a qualsiasi deregolamentazione in un settore strategico per
la vita delle popolazioni.
Garantire
effetti standard di sicurezza significa sciogliere i troppi interrogativi ancora
senza risposta nel campo della sperimentazione della biotecnologia, sopratutto
in quello della diffusione delle biotecnologie nella produzione alimentare.
A
nostro parere non può che esserci una fermezza assoluta nell’interdire la
sperimentazione di colture transgeniche in pieno campo, che permette la
diffusione non controllata di OGM, tramite l’impollinazione e che rappresenta
un ulteriore e difficilmente controllabile rischio di contaminazione dei
terreni.
Siamo
invece convinti che vada rafforzato un modello di produzione basato sui prodotti
tipici italiani, che colleghi alla sicurezza, la qualità che può essere
perseguita solo in un rapporto stretto tra ambiente, territorio e tradizione,
intesa in termini di trasferimento di conoscenze, competenze e procedure.
Si
pone un problema di certificazione dell’innovazione biotecnologica e dei suoi
effetti, che riguarda esclusivamente la ricerca e che non deve implicare in
alcun modo la diffusione delle biotecnologie nelle produzioni alimentari, almeno
fino a quando non saranno stati fatti tutti gli accertamenti necessari a
garantire la sicurezza alimentare.
In
ogni caso, una volta fatta questa scelta di campo ed avendo chiarito che questo
è il problema prioritario esiste anche un problema di informazione: è
indispensabile e urgente risolvere in modo corretto il nodo rappresentato
dall’etichettatura, che deve essere chiara e completa, mentre attualmente sono
omesse le informazioni sui contenuti di OGM, e al tempo stesso l’etichetta
deve indicare il luogo di produzione.
Su
queste tematiche la FLAI dell’ Emilia e Romagna ha prodotto un documento che
è parte integrante dei materiali di questo Convegno.
Non
si tratta, quindi, di un’alternativa tra innovazione e oscurantismo, né di
bloccare in una logica neo-luddista tutta la ricerca nel campo delle
biotecnologie.
Credo
sia anche necessario porsi la domanda se gli OGM siano utili per
un’agricoltura tipicizzata come la nostra.
La
risposta mi sembra scontata! E’ per questo che salutiamo positivamente
l’accordo volontario nazionale sulla sicurezza e qualità alimentare siglato
presso il Cnel lo scorso 8 luglio 2002.
Con
questo patto si intende promuovere un sistema diffuso di autoregolamentazione
della produzione e dell’offerta nazionale non alternativo, ma integrativo
della regolamentazione pubblica, volto alla sicurezza alimentare, alla tutela
dei consumatori, alla tracciabilità e alla leale concorrenza,in una strategia
di elevazione delle qualità competitive delle nostre produzioni in termini di
ambiente, lavoro, processi, prodotti, informazioni.
Si
inizia con la filiera del latte e dei suoi derivati, del pesce, dell’ortofrutta
fresca e delle carni.
Crediamo
che nel territorio le nostre strutture debbano essere attori della gestione di
questo patto chiedendo alle aziende, a partire da quelle più grandi di essere
conseguenti. In questo quadro la Flai nazionale candida il Parco delle Madonie
in Sicilia per la certificazione Emas.
Credo
che sia utile concentrarsi su quello che gli analisti chiamano il grande
paradosso: mentre la dieta mediterranea e la moda alimentare italiana nel mondo
avanzano, l’agricoltura, in particolare quella meridionale, non riesce a
costituirsi in sistema, stenta a raggiungere livelli sufficienti di
organizzazione economica.
Il grande paradosso è rappresentato da un settore economico che potrebbe
essere uno dei punti di forza di tutta l’economia meridionale ma che sembra
non avere la percezione delle sue potenzialità, piegato così com’è su
richieste assistenziali.
La
produzione e il consumo di alimenti è un fatto centrale di ogni società e ha
ripercussioni economiche, sociali e, in molti casi, ambientali.
Nel
sistema agroalimentare del Mezzogiorno questa situazione appare ancora più
esasperata: se da un lato la specializzazione e la tipicizzazione avanzano con
grande forza (basti pensare al grande spostamento al Sud della frutticoltura di
alta qualità, allo sviluppo qualitativo della viticoltura), ancora fortissimi
restano la vischiosità e i ritardi organizzativi in altri comparti, penso ad
esempio agli agrumi.
Bisogna
però sottolineare che nonostante tutto a partire dagli anni novanta si è
cominciata a registrare una inversione di tendenza caratterizzata dall’
aumento dell’esportazioni di prodotti finiti verso altri mercati e da un
interesse dell’imprenditoria nazionale ed internazionale ad investire nel Sud
d’Italia.
Tale
tendenza rafforza la tesi che sosteniamo in questo convegno.
Bisogna
aggredire i punti di debolezza del sistema dati
dalla frammentazione fondiaria e dalla orografia del territorio,dalla scarsa
propensione a fare filiera,dalla modesta capacità di trasformare e/o
commercializzare.
Il
fenomeno della ridotta superficie agricola media aziendale potrebbe essere
superato da un efficiente rete organizzativa tra imprese e nell’attuazione
delle misure per la ricomposizione fondiaria.
Le
diseconomie non riguardano,dunque, solo la produzione ma anche il commercio e
ovviamente tutti i servizi che mancando di una domanda aggregata si
caratterizzano per scarse finalizzazioni, ripetitività e scarsa efficienza.
Ciò
vale anche per la promozione e la valorizzazione commerciale.
Se
fossero aggregati tutti i fondi pubblici per la promozione si raggiungerebbero
dimensioni di cofinanziamento tali da potere affrontare anche i mercati più
difficili.
Tra
i servizi meno efficienti i trasporti meritano un posto a parte trattandosi di
inefficienze che si riflettono direttamente sui costi e sulla competitività.
In
questo quadro riteniamo che il ponte
sullo Stretto non sia una priorità, prima c’è molto altro da fare.
La
questione delle infrastrutture è centrale per lo sviluppo del Mezzogiorno e del
nostro comparto: acqua, elettricità, comunicazioni, reti telematiche, strade,
ferrovie, interporti, reti di commercializzazione e di promozione dei prodotti,
ricerca e innovazione, formazione professionale e scuola, sistema creditizio
accessibile, pubblica amministrazione efficace.
E
per ultimo non in ordine di importanza, la lotta e il contrasto delle
organizzazioni criminali: mafia, ndrangheta, camorra, corona unita.
Bisogna
rivendicare allo Stato e alle Regioni uno sforzo sinergico per
l’internazionalizzazione del sistema non solo per le fasi di
commercializzazione ma anche di produzione assicurando mezzi, strumenti, risorse
finanziarie per essere competitivi nel mercato globale.
Ciò
che fa Israele per gli agrumi, Francia, Olanda e Belgio per le ortive e i fiori.
Le
politiche assistenziali che rivendicano le organizzazioni degli agricoltori
condannano il Mezzogiorno a essere mercato di consumo e sono un ostacolo alla
trasformazione in mercato di produzione che punta alle esportazioni.
Sono
pochi gli operatori che hanno tentato la strada dell’internazionalizzazione.
Agli
agricoltori diciamo che il prodotto agroalimentare non può vincere la sua
scommessa nella competitività sui costi di produzione, può essere competitivo
solo sui servizi incorporati ed in particolare sulla carica “ipersimbolica”
dei suoi prodotti, considerata anch’essa come un servizio.
Da
una fase di orientamento al prodotto nella quale era determinante il fattore
prezzo e quindi i costi di produzione si è passati ad un’era di orientamento
al mercato.
I
fattori di successo sono oggi accanto al prezzo, la qualità del prodotto e la
sua riconoscibilità, ovvero il marchio.
Nuovo
sviluppo è quindi la trasformazione del nostro mercato da mercato di consumo a
mercato di produzione e di proiezione internazionale.
Bisogna
coinvolgere le università, i centri di ricerca e rilanciare quel rapporto di
collaborazione con gli studiosi che è da tempo patrimonio del nostro sindacato.
Con
questi soggetti verificheremo la fattibilità dei nostri ragionamenti e
metteremo a punto la nostra piattaforma.
Siamo
fermamente convinti che gli ingredienti di un nuovo sviluppo siano tutti sotto i
nostri occhi, e devo confessare che mi stupisce quel deficit di interpretazione
della società e della realtà economica meridionale che verifico intorno a me.
In
questi anni c’è stato un forte dinamismo dei comuni riformati che hanno
cominciato a porsi l’esigenza dello sviluppo locale utilizzando, anche, quelle
strumentazioni che il sindacato è riuscito a conquistare con le proprie
battaglie.
I
patti territoriali fanno parte di questa strumentazione, in particolare per quel
che ci riguarda, i patti territoriali verdi che sono il frutto del decreto
legislativo 173/98, che ha esteso all’agricoltura gli strumenti della
programmazione negoziata.
Il
governo nazionale ha finanziato, negli anni passati, novantuno patti
territoriali agricoli e della pesca.
Un
risultato importante, che segnala il dinamismo degli enti locali, di
un’imprenditoria che tenta di misurarsi uscendo dalla nicchia della protezione
politica, di un sindacato legato al territorio.
Un
dinamismo che rivela una grande voglia di fare, di innovare, di rompere con il
fatalismo meridionale, una voglia che è figlia di quella grande riscossa
antimafia che ha caratterizzato gli anni Novanta.
Le
imprese agricole e della pesca potrebbero utilizzare agevolazioni consentite
dall’U.E. fino a un massimo del 75% e potrebbero competere sui mercati interni
ed internazionali.
Purtroppo
tutto è fermo perché è cambiata la strategia del governo.
Se
siamo in grado di fissare le coordinate della nostra iniziativa abbiamo la
necessità di vedere con quali strumenti possiamo concretizzare le nostre idee,
per evitare di fare buoni ragionamenti senza essere in grado poi di realizzare
fatti concreti dei quali abbiamo bisogno.
Patti
territoriali, Agenda 2000, sviluppo rurale sono il terreno sul quale si sta
giocando uno delle partite decisive che potrà determinare importanti inversioni
di tendenza.Stiamo correndo il rischio di perdere un’occasione.
Il
punto è se le risorse dovranno ancora una volta essere sacrificate
sull’altare della crescita senza sviluppo, oppure essere volano di un’azione
che chiudendo con il passato faccia del Mezzogiorno un ponte tra Europa e
paesi rivieraschi.
Purtroppo
se guardiamo alle scelte finora compiute grande è la preoccupazione di rivedere
vecchi scenari.
Si
ha la sensazione che le risorse aggiuntive della programmazione negoziata si
stiano utilizzando, prevalentemente, per finanziare la spesa corrente e per far
fronte ai deficit di bilancio.
Non
credo che ci si muova nella direzione richiesta da Agenda 2000, quella di
ridurre significativamente il divario economico-sociale delle aree del
Mezzogiorno in modo sostenibile.
Si
ha la sensazione che ci si muova furbescamente per sfuggire ai regimi
vincolistici richiesti dall’U.E., che a mio parere più che un impedimento
sono una occasione per una rigorosa politica di investimento di risorse
pubbliche e private per lo sviluppo del Mezzogiorno.
E’
necessario affinare la nostra azione su Agenda 2000 ed i Patti Territoriali:
proponiamo alla Confederazione di promuovere una iniziativa sull’occupazione
prodotta da questi strumenti partendo da un monitoraggio sullo stato dell'arte.
Particolare
attenzione bisogna porre ai piani di
sviluppo rurale ,si tratta di interventi a carico della Comunità, che
serviranno per accompagnare la nuova politica agricola comunitaria (PAC):
agroambiente, forestazione, prepensionamento, ecc...
Sulla
base delle richieste si potranno sviluppare azioni per agricoltura e zootecnia
biologiche, la riduzione dei fitofarmaci, la tutela dei paesaggi agrari,
l’abbandono dei seminativi, la salvaguarda della fauna a rischio di
estinzione. Si apre un importante spazio per l’iniziativa dell’ALPA, che può
porsi così l’obiettivo di raggiungere ulteriore risultati lusinghieri
Al
momento attuale le risorse non sono pienamente utilizzate se non come forma di
integrazione del reddito e dall’altra parte non possiamo che manifestare la
nostra preoccupazione per quella strategia del rinvio che c’è attorno
all’urgenza di riformare la Politica agricola comunitaria.
La
FLAI non vuole essere spettatrice di questo confronto, faremo la nostra parte
con la proposta, l’iniziativa, la mobilitazione; ma ciò non è sufficiente.
Poniamo
alla Confederazione la necessità di riqualificare i Tavoli Verdi ormai
snaturati per la pletoricità dei partecipanti e nei quali Cia, Coldiretti,
Confagricoltura, Associazioni Cooperative, fanno ciò che vogliono spesso con
l’interlocutore istituzionale che fa da sponda a richieste esclusivamente
assistenziali.
Questo
bilancio negativo conferma la
giustezza della nostra richiesta di abolire il ministero delle risorse agricole
cosi come ha chiesto Chiriaco a Napoli nella iniziativa meridionale della Cgil.
Il
Mezzogiorno d’Italia, come ho gia detto, deve lottare contro il tempo per
arrivare a quegli appuntamenti internazionali che apriranno nuove ed importanti
prospettive e che saranno una grande occasione solamente se esso arriverà
preparato.
L’allargamento
ad Est dell’Europa è già una realtà, il nostro meridione arriva in ritardo
all’appuntamento e se continua così dovremo purtroppo rivendicare, per vaste
aree territoriali, l’ipotesi di restare tra le regioni dell’obbiettivo uno.
L’altra
grande prospettiva è quella Euromediterranea.
Care
compagne e cari compagni, noi che viviamo in una isola al centro del
mediterraneo, che è la punta più avanzata dell’Europa in questo bacino,
sappiamo che il nostro futuro, la nostra prosperità si basa sulla capacità di
dialogo con i paesi rivieraschi, in primo luogo con quelli musulmani: sulla
capacità di essere Europa nel Mediterraneo.
E’
noto, come già detto, l’orientamento della Commissione Europea di creare
entro il 2010 nel Mediterraneo una zona di libero scambio che comprenderà una
quarantina di paesi e un mercato di oltre 600 milioni di abitanti.
Il
Mediterraneo è stato per i paesi rivieraschi la via del grano, la via
dell’olio, la via del sale, la via del vino.
Significa
che il Mezzogiorno d’Italia, un ponte tra l’Europa e l’Africa ed il Medio
Oriente, deve sapere cogliere la nuova centralità che il bacino del
Mediterraneo riacquisterà dal punto di vista geopolitico.
Che cos’é il partenariato euromediterrraneo? E’ un programma
integrato di cooperazione; la dichiarazione di Barcellona del 95 prevede tre
aree principali di cooperazione e partenariato. Il primo programma riguarda il
partenariato politico e di sicurezza, per costituire un’area comune, di
“pace e stabilità”: qui risalta l’attualità e la questione
israelo-palestinese come punto di partenza per poter ragionare in termini di
cooperazione e di sviluppo. Secondo: il partenariato economico e finanziario per
creare una zona di prosperità condivisa (e qui viene sancita la data del 2010),
ma anche i processi di avvicinamento rispetto a questa unica area di libero
scambio divisa per settori economici e finanziari. Terzo: il partenariato
relativo alle questioni sociali, culturali, per sviluppare le risorse umane e
promuovere la comprensione fra le diverse culture e gli scambi tra le società.
Le condizioni politiche e socioeconomiche dell’area rendono la
cooperazione necessaria, però questa cooperazione è irta di difficoltà perché
è frammentaria e fragile. Sono soprattutto i paesi dell’Unione Europea che si
affacciano sul Mediterraneo ad essere consapevoli e preoccupati dei fenomeni di
instabilità e insicurezza provenienti dalla sponda Sud, connessi con il
sottosviluppo, l’immigrazione, il terrorismo e la diffusione delle armi. (A.Riolo)
I
Paesi che hanno aderito, oltre quelli europei, sono: Marocco, Algeria, Tunisia,
Libia, Egitto, Israele, Territori Palestinesi, Giordania, Libano, Siria,
Turchia, Malta e Cipro.
Siamo
del tutto contrari a quella tesi che rivendica per la Sicilia, approfittando del
semestre italiano di presidenza UE, un ruolo europeo di eccellenza nel
Mediterraneo, perché per questo scopo bisogna avere le carte in regola, ma
anche perché non vogliamo fare la fine che ha fatto Parma per l’autorità
alimentare europea.
Ma
la questione importante è darsi una politica euromediterranea per governare
quel processo demografico che vedrà ridurre gli europei di 5 milioni di unità
e incrementare la sponda nordafricana di 45 milioni di persone nello stesso
periodo(2005-2020). Pensate alle novità che si produrranno nel mercato del
lavoro!
Oggi
siamo molto preoccupati per l’aggravarsi della crisi medio-orientale e per i
venti di guerra che spirano.
Riteniamo
insufficiente l’iniziativa per la pace della Comunità internazionale.
Noi rivendichiamo un ruolo importante per il Mezzogiorno d’Italia, quello
di essere la grande piattaforma europea specializzata per l’agroalimentare
mediterraneo.
Ma
la prima condizione per il successo della nostra rivendicazione è fare del
Mediterraneo un mare di pace.
Sappiamo
che le dinamiche internazionali hanno forti ricadute sul nostro settore e più
in generale sulle tematiche dell‘alimentazione.
Le
politiche dell’alimentazione sono strategiche nelle relazioni tra i paesi e in
particolare tra Nord e Sud del mondo.
Terra,
aria, acqua, risorse del mare, salute sono al centro di un processo che non può
tradursi in sola merce o mercato, ma in risorse e processi che devono essere
governati a livello mondiale.
C’è
spazio per dialogare con quei movimenti “new global” che aspirano a vivere
in un mondo giusto, fatto di pace tra i popoli e di cooperazione tra razze
diverse.
Il
progetto portato avanti dalla Flai, che vuole essere sindacato del territorio e
attore dello sviluppo sostenibile che assume la sicurezza alimentare, la difesa
del suolo, lo sviluppo rurale come punti strategici dell’iniziativa sindacale,
ci porta a rilanciare il confronto con le organizzazioni ambientaliste.
Sottolineo
questi aspetti perché sono convinto che solamente se giochiamo a tutto campo,
se facciamo politica nel senso più serio e più pieno della parola, possiamo
portare a casa risultati positivi per le nostre rivendicazioni e possiamo dare
un contributo per arrestare il declino del Paese.
All’iniziativa
meridionale della Cgil a Napoli, Franco Chiriaco ha indicato quattro parametri
per spiegare il fallimento delle politiche meridionali: abbandono
dell’industrializzazione, incremento del lavoro nero e illegale, stabilità
nel tempo dei livelli di disoccupazione, differenziale salariale nord-sud
attestato attorno al 20%.
Sono
quattro parametri sotto gli occhi di tutti che indicano come le ricette del
“libro limaccioso sull’occupazione” e il cosiddetto patto per l’Italia
siano terapie errate perché partono da analisi errate, che non porteranno
risultati se non quello odioso di una ulteriore precarizzazione del lavoro
meridionale.
Lo
sciopero dell’industria proclamato dalla CGIL nazionale per il 21 febbraio a
sostegno delle vertenze in corso e per il rilancio dell’apparato produttivo
nazionale è un momento importante per la nostra categoria e dovremmo
contribuire con le nostre elaborazioni sia nella fase della costruzione
dell’analisi e delle proposte sia nella fase di mobilitazione dei lavoratori
per lo sciopero.
La
Flai assieme alla Cgil tutta si batte per contrastare questo disegno, ha il
consenso di ampi settori del mondo del lavoro e con l’iniziativa odierna da un
contributo per determinare una inversione di tendenza nel mezzogiorno.